Alias

Wenders alla Cinémathèque

Intervista Il regista è stato quest'anno il padrino di "Toute la mémoire du monde" che coinvolge varie sale della città

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 17 marzo 2018

Wim Wenders è da anni di casa in Francia. Neanche due anni fa, il Louvre gli ha dedicato un omaggio alle ‘Journées Internationales du film sur l’art’. E da sempre lo coccola la Cinémathèque di Parigi, che dal 7 all’11 marzo gli organizza una bella personale e gli dà ‘carte blanche’ – com’era già successo negli anni precedenti con Francis Ford Coppola, Paul Verhoeven, Joe Dante –, facendolo regnare, accanto a Stefania Sandrelli, su ‘Toute la mémoire du monde’, sesta edizione, equivalente d’oltralpe del ‘Cinema ritrovato’ di Bologna. Paris, France per il regista tedesco, fin dai tempi di Paris, Texas, Palme d’or 1984 al Festival di Cannes. Dove probabilmente tornerà in concorso in maggio con il nuovo film, Submergence (in Usa dal 13 aprile), dal best-seller eponimo di J.M. Ledgard, girato l’altra estate nella ‘sua’ Francia, a Varengeville-sur-Mer, in Normandia. « Un dramma romantico, con Alicia Vikander e James McAvoy – spiega il cineasta, 73 anni il 14 agosto, occhiali dall’immancabile montatura blu, ciuffone stropicciato, spiovente sulla fronte, che lui di tanto in tanto rastrella all’indietro –. È una coppia divisa da migliaia di chilometri. Lui, inglese, è stato sequestrato in Oriente dai jihadisti, lei, oceanologa, a bordo d’un sommergibile, esplora le profondità del mare. È il ricordo della loro storia intima, del trascorso, inteso amore a tenerli uniti in questa separazione davvero abissale ».

Accanto ai due eroi-vittime, riappare il francese Reda Kateb, già nel precedente Les beaux jours d’Aranjuez, in prima mondiale nel 2016 alla Mostra di Venezia : altra coppia, altro tête-à-tête, stavolta ravvicinato, i cui protagonisti sono incollati alle loro sedie, durante il lungo dialogo che li assorbe. Ma quel dialogo è un viaggio nel passato : e nel futuro. Nel corso del tempo. Nello stato delle cose. Fino alla fine del mondo. Riaffiorano a spruzzi, da una profondità cinematografica da tempo sommersa, i titoli del regista tedesco che da mezzo secolo ha fatto del cinema un accorato percorso dentro gli interrogativi di un’Europa in ansia : come il portiere davanti al calcio di rigore. Lontani apparentemente dalle esplicite cadenze on the road degli esordi, i suoi film continuano a indagare personaggi fuori rotta – anche nella forma documentaria, da Pina Bausch a Salgado –, inseguendo le loro avventure esistenziali e artistiche.

I suoi on the road son diventati road movies della memoria ?

Les beaux jours d’Aranjuez è il dialogo tra un uomo e una donna : in un certo senso, l’ultimo dialogo prima della fine del mondo. Un ‘dialogo estivo’, come l’ha definito l’autore del testo, l’amico Peter Handke, con cui ho collaborato per la quinta volta. Accanto ai protagonisti, Reda Kateb e Sophie Semin, m’è piaciuto inventarmi qualche ‘cameo’, Nick Cave che interpreta una canzone o lo stesso Handke nel ruolo di giardiniere. Ho voluto portare le riflessioni dello scrittore austriaco all’aria aperta, con la natura intorno. Una terrazza. Un giardino. All’orizzonte, s’indovina Parigi.

Già nell’Amico americano trionfa la sua predilezione per il ‘cameo’.

Inevitabilmente. Il plot pullula di banditi e mafia. A me piacciono troppo i cattivi : nessuna voglia di affidarli a attori. Mi son detto : i veri gangster che conosco sono i miei colleghi, anche noi giochiamo di continuo con la vita e la morte. Perciò ho messo insieme un super-cast di registi : quelli che amavo di più, Dennis Hopper, Nick Ray, Gérard Blain, Sam Fuller, Jean Eustache.

È uno dei suoi titoli più popolari, ma ha rischiato di non esistere. Com’è andata ?

Da sempre ambivo a portare sullo schermo un romanzo di Patricia Highsmith, di cui adoro l’intera opera. Le ho scritto quattro o cinque lettere per chiedere i diritti di vari titoli. La risposta, immutabile : già presi dagli Studios. Dopo ulteriori insistenze, mi ha invitato in Svizzera a casa sua, dove troneggiava il suo gatto. E io sono allergico ai gatti. Impietosita, tira fuori il manoscritto del romanzo che stava scrivendo, Ripley’s Game : ‘Tenga, questo non l’han letto nemmeno i miei agenti’.

Il suoi film sono cine-erranze : introspettive, quando non sono anche fisiche. Per lei, una molla indispensabile ?

Discende forse dalla mia infanzia e dall’aria che tirava allora in Germania : uno spazio immobile, in tutti i sensi, uno stagno con mille frontiere e gente di mentalità chiusa. Ho sentito presto l’urgenza di partire, aprirmi al mondo. La prima volta che ho potuto viaggiare ero solo : avevo 5 anni ».

Quasi un’autobiografica Alice nelle città : esperienza all’origine del film stupendo del ’74 ?

Chissà. È una prima volta che non ho mai dimenticato. E non ho traversato l’Atlantico : dovevo solo andare dalla nonna. Mia madre era incinta e non poteva venire, ma mi ha accompagnato al treno dove ha cercato chi potesse farmi da balia. Ho protestato : ‘Non ho bisogno di nessuno !’. E con mia grande gioia nessuno s’è fatto avanti. Ho capito in quel momento che la felicità più grande nella vita è viaggiare soli.

Poi vi ha preso gusto. E appena ha potuto ha attraversato l’oceano : stregato dagli Usa ?

Non è successo da un giorno all’altro. L’America è arrivata per gradi. Prima, la letteratura. Quando ho cominciato a leggere – ero velocissimo, divoravo un libro al giorno –, i miei titoli preferiti sono stati Tom Sawyer e Le avventure di Huckleberry Finn de Mark Twain. Poi, i fumetti : non molto popolari in Germania, ma ho cominciato a collezionarli. Tutti, da Topolino a Superman. Infine, il rock’n roll : avevo 10-11 anni, non m’attraeva molto la musica, trovavo ributtanti le canzoni tedesche che sentiva mia madre alla radio. Ma il rock’n roll era la migliore musica del mondo : anch’essa made in Usa, come tutto quel che aveva favorito la mia crescita.

Un contropelo rispetto all’educazione ricevuta in casa, no ? 

Eh, sì : famiglia cattolica, perbenista, nella protettiva Düsseldorf. Compravo valanghe di dischi ma dovevo nasconderli da un amico, perché i miei detestavano il rock’n roll. E se ti piace qualche cosa, doverla difendere te la fa amare ancora di più. Ai miei non andavan giù neanche i fumetti. E quando hanno scoperto che film andavo a vedere, è stato il finimondo. Insomma, era un lotta quotidiana far accettare quel che mi piaceva.

Eppure, è grazie ai suoi se è diventato regista. Non è così ?

Indirettamente. Mio padre, chirurgo, m’aveva fatto seguire i corsi di medicina a Monaco, da cui m’ero dirottato su filosofia a Friburgo. Fino a oltre vent’anni non avevo nulla a che fare con il cinema. Volevo essere pittore : sono sempre stato pittore … mancato – ride Wenders –. Per assecondare la mia vocazione, nel ‘65 mio padre mi manda a Parigi, all’Accademia di Belle Arti. Le lezioni finivano alle 16, mi annoiavo e faceva freddo. Ma proprio accanto, a Trocadéro, c’era la Cinémathèque. Non avevo soldi, ma lì i biglietti costavano poco : e faceva caldo. Henri Langlois, il fondatore, stava in prima fila. Io mi piazzavo in seconda. C’eran sempre le stesse facce in prima e seconda fila, ma non ci siamo mai conosciuti : volevamo solo guardare film. In un anno ho visto di tutto, anche film giapponesi con sottotitoli egiziani. Ho annotato tutto e ho cominciato a capire come si fa cinema. Bisogna essere capaci di scrivere nel buio per diventare cineasti ...

Pittore mancato ma regista riuscito

I primi passi non sono stati facili. Bocciato all’esame d’ammissione all’IDHEC, dove non han preso nemmeno Fassbinder : s’era talmente arrabbiato che, quando noi del Nuovo Cinema Tedesco abbiamo sfornato il primo corto di scuola, lui aveva già realizzato quattro lungometraggi ! Per studiare cinema sono rientrato in Germania, nel ’68, frequentando la Hochschule für Film und Fernsehen di Monaco. Nei concorsi a Parigi c’era sempre una coda infernale : c’erano venti posti e io arrivavo sempre ventunesimo !

Una carriera così sfolgorante e iniziata per caso : grazie al freddo dei pomeriggi parigini ?

Se ci ripenso, forse non sarebbe mai cominciata se il biglietto alla Cinémathèque fosse costato non 1 ma 2 franchi. Per di più, tra un film e l’altro, per non pagare l’ingresso successivo, sostavo nella toilette. Quanta gente in quella toilette …

Nei suoi film, frequenti i debiti di riconoscenza. Paris, Texas è dedicato a Lotte Eisner, gloriosa ‘mamma’ del Nuovo Cinema Tedesco, L’amico americano a Henri Langlois.

Era stata la Eisner a incoraggiarmi a andare a Hollywood. L’ho conosciuta tardi. Tre o quattro volte a casa sua : tè e cookies. Aveva visto tutti i film tedeschi, anche i miei. Grazie a Lotte e a Langlois, ho potuto conoscere il cinema, anche tedesco, che mai avrei visto in Germania. E senza Langlois non sarei divenuto regista.

 

TOUTE LA MEMOIRE DU MONDE

Coronata dalla consueta maratona notturna, dal 10 sera all’11 mattina, costituita quest’anno di 4 mitici titoli di Russ Meyer (da Orgissimo a Supervixens), ‘Toute la mémoire du monde’ è per il sesto anno la più gioiosa esplosione di cinema, disseminata in varie sale di Parigi.

Padrino Wim Wenders (con i suoi film di culto e il nuovo libro, Les Pixels de Paul Cézanne, Editions de l’Arche, con capitoli su Antonioni, Ozu, Yamamoto, Pina Bausch), ospite d’onore l’‘icona’ Stefania Sandrelli, musa di Germi, Scola, Monicelli, Bertolucci (con il restaurato Novecento), la cinque giorni della Cinémathèque è la felice riscoperta e degustazione di grandi film, alcuni spariti da tempo dagli schermi: è il caso di ‘Perle rare del cinema ungherese’, 8 film restaurati, alla presenza di István Szabó e Márta Mészáros, o ‘il Noir Usa’ e la Hollywood anni 50, o ancora ‘Londra ai tempi del muto’, con i ‘deb’ Asquith e Hitchcock, o la ‘resurrezione’ di Cinerama, spettacolare scoop hollywoodiano del dopoguerra, antenato dell’IMAX, con sequenze stupefacenti ritrovate ai quattro angoli del pianeta.

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