Evidentemente, Ai Weiwei è ospite piuttosto indesiderato anche in Europa. In Gran Bretagna, soprattutto. Nonostante gli inglesi si apprestino ad allestire una grande mostra alla Royal Academy of Arts di Londra in omaggio alla carriera di questo designer e architetto cinese (prevista per settembre), qualcosa nei rapporti con l’artista è andato storto.

Le autorità britanniche lo hanno infatti accusato di aver mentito nella compilazione dei documenti necessari per il visto di sei mesi: Ai Weiwei avrebbe dichiarato di non aver mai subito condanne penali e la sua richiesta è stata respinta al mittente. Il visto d’entrata nel paese ci sarà, ma varrà per venti giorni. Mancanza di correttezza secondo i funzionari, scuse e motivazioni assurde per l’artista e i suoi legali. La detenzione di 81 giorni in un carcere segreto a Pechino e la condanna a pagare una salatissima multa per tasse non pagate (2,4 milioni di dollari) non aveva niente a che fare con la giustizia né con il «ramo penale»: era una vessazione governativa contro un dissidente. E Ai Weiwei è partito al contrattacco sostenendo che, in questo modo, anche l’Inghilterra rischia di voltare le spalle «ai difensori dei diritti umani».

Qualcuno poi, su Twitter, malignamente ha insinuato che la restrizione del periodo concesso nel Regno Unito si deve ricondurre a equilibri diplomatici: le accuse sarebbero inventate; in realtà, sono un compromesso politico per «piegarsi» alla visita ufficiale di Xi Jinping a Londra. Per molti, anche la restituzione del passaporto sequestrato ad Ai Weiwei non è arrivata per caso. Questa volta, la mossa diplomatica è tutta cinese. Fastidioso e impresentabile in patria (anche se ha tenuto una mostra a Pechino recentemente), Weiwei sarebbe diventato una pedina di scambio con l’Europa. Lo stesso permesso a viaggiare fuori confine potrebbe essere stato offerto con la speranza di un suo «allontanamento volontario» dalla Cina.

Ai Weiwei era diventato membro onorario della Royal Academy proprio dopo la sua prigionia. Nel 2011 i suoi colleghi artisti e architetti decisero di eleggerlo come atto di solidarietà nei suoi confronti e per sostenere le ragioni della sua liberazione. La mostra londinese non farà che coronare la tradizione che programma esposizioni dei suoi «accademici reali» (tra gli altri, Kapoor, Hockney e Kiefer).

Uomo abituato alla pratica del j’accuse, perenne sorvegliato speciale che denuncia in modi spettacolari il suo statuto esistenziale» (anche nel suo libretto Weiweismi, uscito per Einaudi, in cui raccontava orrori privati e metteva in scena una società agonizzante, rosa dal capitalismo), l’artista non ha perso tempo e ha pubblicato su Istagram la lettera di rifiuto inviata dall’ambasciata britannica a Pechino il 29 luglio. Qui, un rappresentante dell’immigrazione liquidava la questione, burocraticamente, così: «È di dominio pubblico la condanna penale in Cina e non è stata dichiarata». Qualsiasi tentativo di chiarire la sua posizione con le autorità inglesi, spiegando di non aver mai avuto condanne per atti criminali, è andata a vuoto. L’ufficio immigrazione si è rifiutato di correggere il tiro: nessun errore di valutazione, è stata la secca risposta, solo il rispetto delle normative.

Per i sostenitori di Ai Weiwei si tratta di un attacco a un «cittadino comune», una specie di rappresaglia che, oltretutto, potrebbe non permettere all’artista di presenziare alla sua stessa mostra. Il caso che lo ha visto implicato con la giustizia in merito alla evasione fiscale non è mai arrivato in tribunale, non ha una sentenza e dunque non può considerarsi una condanna penale.

Non è molto fortunato Ai Weiwei nei suoi rapporti con il Regno Unito: quando alla Tate di Londra portò nel 2010 i suoi semi di girasoli in ceramica (che simboleggiavano i cinesi vittime delle carestie procurate da Mao) l’installazione venne subito transennata: la polvere bianca che si alzava dai granelli di ceramica, calpestata dal pubblico, era tossica.