Impaginato di spalla, il commento che compariva sulla copertina del «Calcio illustrato» del 7 settembre 1938 non avrebbe potuto avere un titolo più chiaro, Bonifica: esso annunciava, nei modi di una asettica misura igienica, la promulgazione delle cosiddette leggi razziali che fin dall’estate precedente una rivista dal titolo sinistramente vittimista, «La Difesa della Razza», si era data il compito di iscrivere nel senso comune martellando coi più vieti stereotipi della xenofobia e della eugenetica. Il calcio non fu risparmiato e lo attesta la vicenda di Árpád Weisz, il tecnico ebreo ungherese che allora guidava il Bologna, non solo la squadra più forte in Italia (e presumibilmente anche in Europa) ma anche la più vicina alla immagine del regime fascista, per via di un dirigente, Leandro Arpinati, gerarca dello sport poi caduto in disgrazia, e per via del Littoriale, lo stadio di stile neoclassico, inaugurato nel ’27 dal Duce in persona il cui monumento equestre sarebbe stato accolto fino al 25 luglio del ’43 in una cavità aggettante della torre di Maratona.
Dunque Weisz sparì e, caso tipico da zona grigia, i giornali si limitarono alla diffusione di un comunicato, quasi si trattasse di un avvicendamento burocratico o di una fatalità: presto, nonostante la firma sullo storico manuale di football prefato addirittura da Vittorio Pozzo (Il giuoco del calcio, scritto con Aldo Molinari ed edito da Corticelli nel 1930), il suo nome venne cancellato e non soltanto adulterato – Veisz in luogo di Weisz – dalla ortografia fascista, fino a che, ottanta anni dopo, Matteo Marani seppe riportarne in luce la storia in un libro toccante, bellissimo, Dallo scudetto ad Auschwitz (Aliberti 2007, appena riproposto da Diarkos) che è alla base del successivo contributo di Paolo Balbi, Árpád Weisz. Il tempo, gli uomini, i luoghi (Serra Tarantola 2018), del libro a fumetti di Matteo Matteucci, Arpad Weisz e il Littoriale (Minerva 2017) e ora della monografia di Giovanni A. Cerutti, L’allenatore ad Auschwitz Árpád Weisz: dai campi di calcio italiani al Lager (Interlinea, con un piccolo album fotografico, pp. 107, € 12,00), che si segnala per il fatto di ricondurre i documenti, con chiarezza didascalica, alla ormai sterminata bibliografia sulla Shoah.
La parabola sportiva di Weisz è nota: ex giocatore di discreta caratura, tecnico viceversa d’avanguardia per i metodi di allenamento, approda all’Inter dove vince il primo campionato a girone unico (1930) e lancia il più grande fra i nostri calciatori, l’allora imberbe Giuseppe Meazza; dopo comparsate a Novara e Bari, si afferma appunto nel Bologna che la voce popolare vuole lo «squadrone che tremare il mondo fa». Lì vince due scudetti (nel ’36 e nel ’37) e una competizione internazionale di prestigio, il Torneo dell’Expo a Parigi, stadio di Colombes, quando i rossoblu battono in finale (6 giugno 1937) i blues del Chelsea per 4:1 grazie specialmente al centravanti Angiolino Schiavio, che quel giorno gioca la sua ultima partita al fianco di altri grandi campioni, dal portiere Ceresoli all’ala Biavati, dai centrocampisti italo-urugiagi Andreolo, Fedullo e Sansone allo stoccatore bustocco Reguzzoni. (Nel tardo pomeriggio del giorno dopo – ci informa Luca Baccolini nel Romanzo del grande Bologna, Newton Compton 2018 – la squadra fu accompagnata in corteo dalla intera città lungo i portici di via Indipendenza: mischiati alla folla c’erano due ginnasiali del «Galvani», poeti in erba e però tifosissimi dei rossoblu, Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi).
Cacciato con la moglie e due figli nati entrambi in Italia, Weisz trovò asilo in Olanda allenando il piccolo club di Dordrecht, non lontano da Rotterdam. (Ma pochi sanno che proprio l’Olanda, la tollerante e civilissima Olanda, ebbe nell’Europa occupata la più alta percentuale di ebrei deportati in campo di sterminio, qualcosa come 107.000 su 140.000, di cui solo 5.450 fecero ritorno a casa: e qui vale sempre il reportage di Simon Kuper, Ajax, la squadra del ghetto, Isbn 2003). All’indomani della capitolazione dell’Olanda, 14 maggio 1940, Weisz e i familiari non fecero eccezione: prima discriminati, poi arrestati nell’agosto del ’42 e istradati nel campo di raccolta di Westerbork (dove presto sarebbero passate Hetty Hillesum e Anne Frank), sua moglie e i figli vennero eliminati già all’arrivo in Auschwitz, Árpád resistette fino al 31 gennaio del 1944.
A proposito, Cerutti fa sue in conclusione le parole che suggellano il grande libro di Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa (Einaudi 1995): «È stato necessario riconoscere che numerosi principii fondamentali sui quali la nostra civiltà è ritenuta fondarsi, furono messi in discussione, e lo sono ancora oggi; perché, anche se il risultato appartiene già al passato, il fenomeno profondo non è ancora scomparso». No, quel fondo d’acqua cupa e tetra, putrescente, non è affatto scomparso, anzi rigurgita dilagando oggi nella zona grigia.