Harvey Weinstein nudo sotto l’accappatoio che chiede un massaggio o di condividere una doccia era solo l’inizio: impiegate istruite a fare da «esca» a giovani attrici inesperte per poi abbandonarle tra le grinfie del rapace boss, Mira Sorvino e Rosanna Arquette che scappano a gambe levate da una stanza d’albergo, la modella Ambra Battilana Gutierrez dotata di registratore nascosto dalla polizia di New York, come in un puntata di Law and Order, Asia Argento ventunenne obbligata a sesso orale contro la sua volontà all’Hotel du Cap, ma qualche tempo dopo a cena con la mamma di Harvey, che si era offerto di pagarle anche la baby sitter….

Tre donne parlano esplicitamente di stupro – che lui nega via portavoce. Mentre, dopo il silenzio iniziale, la serie A hollywoodiana si è scatenata in una carica dei mille e uno tweets, per prendere le distanze dall’uomo che in altri tempi Meryl Streep definì «Dio» e in cui onore Judi Dench si tatuò una chiappa, il teatro degli orrori di Harvey Weinstein assume toni decisamente più gran guignol grazie a un lungo reportage del New Yorker uscito ieri e firmato – impossibile non sottolineare l’ironia- da Ronan Farrow, il figlio e il maggior accusatore di Woody Allen.

Nel corso di un’inchiesta durata, scrive lui, dieci mesi, Farrow (che fa il giornalista per la NBC) ha raccolto le testimonianze di attrici e impiegati del produttore -molti dei quali «on the record»- che ricostruiscono il rituale – di una metodicità quasi disarmante, a partite dalla questione del massaggio – con cui Weinstein, nel contesto presunto di incontri di lavoro, se ne usciva con avances sessuali pesantissime, occasionalmente forzando (per via del suo potere e della sua stazza) la vittima di turno ad acconsentire ai suoi desideri controvoglia. Il vecchio rituale hollywoodiano del casting couch era, nei racconti di ex collaboratori di Weinstein, cosa nota, di routine, negli uffici newyorkesi e losangelini della compagnia, al punto che i meetings ogni tanto iniziavano con la presenza di una executive o di un’assistente donna, che poi però si dileguava opportunamente lasciando la preda sola con il lupo Harvey. La reputazione di Weinstein era infatti tale -raccontano alcune delle intervistate sul New Yorker- da far sì che la prospettiva di un tete e tete andasse evitata a tutti i costi.

Sia Mira Sorvino (perseguitata, pare, anche telefonicamente, e che ha dovuto inventarsi un fidanzato la sera che Weinstein si è presentato alla porta dell’appartamento) che Rosanna Arquette pensano oggi che aver rifiutato le avances del tycoon abbia avuto un impatto negativo sulla loro carriera. Argento – che in Scarlet Diva aveva incluso la scena di un produttore che assalta il suo personaggio in una camera d’albergo, chiedendole di fargli un massaggio- racconta a Farrow che – dopo un primo episodio non consenziente lei e Weinstein hanno avuto rapporti sessuali più volte. E, su sollecitazione di Battilana Gutierrez l’ufficio della procura di New York avrebbe preso in considerazione l’idea di aprire un’inchiesta su Weinstein per poi decidere (anche a fronte della registrazione segreta provvista dalla modella) altrimenti.

E non è tutto per Harvey-gate. Sempre nella giornata di ieri, non avevi nemmeno tempo di assorbire l’articolo del New Yorker che, tra il lancio di Variety sul post Facebook di Ben Affleck («rattristato e arrabbiato», «le accuse sporte a Weinstein fanno venire la nausea») e il tweet di Hillary Clinton («scioccata e inorridita», si complimenta per il coraggio delle donne che si sono fatte avanti) che il New York Times metteva online una seconda puntata del reportage di Jodi Kantor, che la settimana scorsa ha dato inizio alla fine di Weinstein.

Nel nuovo articolo del quotidiano newyorkese, scritto a partire da rivelazioni degli ultimi giorni, insieme ad altre donne – anche Angelina Jolie e Gwenyth Paltrow ammettono di aver subito le attenzioni indesiderate da Harvey all’inizio delle rispettive carriere. In questa frenetica, inarrestabile, epidemia di recovered memories, è ormai sicuro che Weinstein «ci provasse» più o meno con tutte, e con un’abitudinarietà patologica.
Se il finale ignominioso della sua storia da sempre truculenta (non importa quanti Oscar) avrà la funzione esemplare di scoraggiare comportamenti analoghi, ben venga.

Ma nella smania delle «rivelazioni», dell’isteria del coverage mediatico, dei diti puntati contro «chi non dice niente», delle dichiarazioni scandalizzate (come se fosse necessario pronunciarsi pubblicamente a sfavore della molestia sessuale!) e nella nebbia di abusi di potere, percezioni, ricordi, vecchi malcostumi, insicurezze, calcolo… viene da chiedersi se, nel rogo di Harvey Weinstein, Hollywood non stia in realtà cercando di esorcizzare l’attuale occupante della Casa bianca. Sfoggiando uno humor irriverente di cui sembrano incapaci questi tempi, anche Paul Schrader, via Facebook, ha detto la sua sul caso del giorno: «Sapevo che era un gangster sessuale. Come lo sapeva la maggior parte di chi lo ha incontrato. Ne sentivi la puzza prima che arrivasse. Ma non è quella la cosa di lui che mi ha offeso di più, bensì il fatto che avesse comprato, per poi rimontarli, dei film di Wong Kar Wai e di Bernardo Bertolucci».