Dagli anni ’60 in poi gli scienziati russi furono più volte a un passo dall’obiettivo di «inventare» Internet ma fallirono sempre. Paradossalmente, spiega Benjamin Peters nel suo acclamato How Not to Network a Nation: The Uneasy History of the Soviet Internet, fu il maggior grado di cooperazione sociale della capitalista America rispetto alla concorrenza tra vari enti sovietici a permettere agli scienziati del Pentagono di raggiungere l’obiettivo per primi.
Da allora Internet e Russia, non hanno fatto più pace. Se esiste una data di nascita del «sovranismo digitale» russo questa è il 2008 quando Dmitry Medvedev rimpiazza Vladimir Putin al vertice del Cremlino. La fase eroica del putinismo prima maniera e il boom economico dei primi anni dell’amministrazione stanno volgendo al termine.

È tempo di strutturare il potere dello «Zar» in un vero e proprio regime e il controllo dei flussi delle informazioni diventa essenziale. Poco dopo essere entrato in carica Medvedev visita Singapore ed è affascinato dalla efficienza burocratica digitale messa in piedi dall’allora primo ministro Lee Kuan Yew. Lo cita come esempio «soprattutto perché sa coniugare l’uso della rete con un autoritarismo che non tollera critiche dall’esterno e zelantemente protegge la sua sovranità nazionale», hanno sostenuto Andrey Soldatov e Irina Borogan nel loro Red Web. Al progetto di integrare digitale e «sovranità nazionale» lavorano tre personaggi chiave. Il primo è Vladislav Surkov, ex guardia del corpo del grande nemico di Putin, Mikhail Khodorkovsky. È lui a coniare il termine «democrazia sovrana» per descrivere la sintesi ideologica del putinismo: nazionalismo conservatore, autoritarismo e potere verticale. Medvedev recluta al progetto anche Alexey Soldatov.

Soldatov è sconosciuto al grande pubblico ma non certo a chi si occupa di rete: è colui che in epoca sovietica è arrivato più vicino a creare la Arpanet russa. Il primo suo obiettivo, una volta entrato in carica, sarà quello di acquisire i domini con estensione in cirillico. Il terzo personaggio è Kostantin Kostin, uomo d’apparato, cresciuto nella filiera leningradese. Il suo compito è quello di porre sotto controllo governativo Yandex. Yandex, ancora oggi il motore di ricerca più usato in Russia con il 64% di share, è diventato negli anni 2000 un colosso: portale d’informazione, navigatore digitale, broswer. Kostin conclude con i proprietari di Yandex il «colpo del secolo», come lo definirà Vedomosti.

Il portale d’informazione selezionerà da allora le informazioni in base alle esigenze del Cremlino ed escluderà dai propri algoritmi i siti «non conformisti»: in cambio avrà libero accesso ad attività economiche contigue al core-business. Yandex taxi con la compiacenza del governo è diventa il numero 1 del servizio taxi low-cost, così come i suoi servizi turistici.Dal 2010 all’interno del Cremlino si è iniziata ad accarezzare l’idea di un nuovo livello di controllo della rete e del mondo digitale. Putin e Surkov, diventato poi consigliere personale del presidente, hanno più volte ventilato l’ipotesi di creare un «internet nazionale» che isoli la Russia dal World Wide Web. Putin è tornato a parlarne ancora nel 2017, promettendo però di «non toccare You Tube».

A questa idea starebbe lavorando nient’altro che Evgeny Kaspersky, già agente del Kgb in epoca sovietica e uno dei più celebri criptologi del mondo.

Ma è stato quest’anno che l’offensiva del governo russo contro la rete è diventata guerra aperta. Ad aprile il governo russo ha bloccato il sistema di messaggistica Telegram, un clone russo di WhatsApp perché l’azienda si è rifiutata di consegnare al FSB le chiavi di accesso per decrittare i messaggi degli utenti. Iniziativa che si è dimostrata un boomerang. Il fondatore di Telegram è anche infatti il proprietario di Vkontakte, il Facebook russo e vera e propria icona dei millenials russi. Non solo Durov è riuscito facilmente ad aggirare l’oscuramento, ma ha promosso una campagna antigovernativa che ha portato decine di migliaia di ragazzi a manifestare a Mosca per la «libertà di Internet». Una sconfitta che ancora brucia, ma che difficilmente farà cambiare piani a chi vuole mettere la rete sotto tutela.