Era metà degli anni ’80, e avevo invitato all’università Guy Carawan, sua moglie Candie Anderson e un gruppo di artisti e musicisti dello Highlander Center del Tennessee a tenere un seminario.

Poi, con l’idea di fargli vedere l’Italia migliore, li portai tutti a Piadena, a incontrare la Lega di cultura e a casa del «Micio» Gianfranco Azzali.

Guy Carawan è morto il 2 maggio scorso nella sua casa di New Market, Tennessee, e la sua perdita è dolorosa non meno di quella di Pete Seeger un anno fa.

Alla fine degli anni ’50, era stato lui a spiegare ai giovani militanti del movimento dei diritti civili, che quelle che loro disprezzavano come slave songs, canzoni di schiavi dei loro nonni, erano in realtà freedom songs, canzoni di libertà e di lotta che diventarono una delle armi di mobilitazione e di espressione del movimento dei diritti civili.

Al centro di Highlander dove lavorava (fondato negli anni ’30 per formare i quadri sindacali nel Sud, diventato un centro di formazione per il movimento dei diritti civili negli anni ’50), si erano formati alcuni dei protagonisti di quella lotta, a partire da Rosa Parks, che era stata a Highlander prima di compiere il suo famoso gesto di protesta sull’autobus segregato a Birmingham.

Dagli archivi di Highlander, Guy Carawan recuperò una canzone che Zilphia Horton, la moglie del fondatore, aveva registrato molti anni prima durante uno sciopero di braccianti neri in North Carolina. Era uno spiritual d’inizio secolo che diceva «I’ll Overcome Someday».

Cambiata la prima persona singolare nel plurale, la canzone che Guy Carawan insegnò ai militanti del movimento, diventò «We Shall Overcome».

A Piadena Guy e Candie regalarono un concerto, che si tenne nelle cantine del municipio. Quattro panche, pareti nude, ma una splendida acustica. Quando lui e Candie attaccarono We Shall Overcome, il pubblico – quasi tutti operai e braccianti – si alzò in piedi come se avessero suonato l’inno nazionale.

È stato uno dei momenti più commoventi che io ricordi. Devono esistere delle splendide foto di quel concerto, fatte dal nostro Carlo Leydi. La sera dopo, Guy e gli altri fecero un concerto alla sezione comunista di Calvatone. Emozionato come un bambino, Guy si comprò un paio di calze rosse con la falce e martello che non si tolse più fino alla partenza.

Fu Guy a darmi i primi contatti per la ricerca sui minatori a Harlan County, dove poi lo incontrai di nuovo in un concerto contro il broad form deed, la norma che permetteva alle compagnie minerarie di distruggere la superficie, case e cimiteri compresi, per prendere il minerale che c’era sotto (una lotta che poi ha avuto successo).

L’ho visto l’ultima volta due anni fa, molto stanco, cominciava a perder la memoria, ma si ricordava quei giorni di Piadena con lucidità e affetto.

Da quando lui l’ha insegnata, e Pete Seeger l’ha diffusa, la canzone ha continuato a vivere. Basta cercare su youtube per vederla cantata dai manifestanti di Occupy Wall Street.

L’ultima volta che ho scritto a Guy è stato per mandargli un file audio. Era Sushmita Sultana, una musicista del Bangladesh che vive a Roma, al Casilino, con il coro multietnico Romolo Balzani.

La canzone che cantava era We Shall Overcome, in lingua bengalese.

L’ho sentita cantare su un bus da un gruppo di studenti in India. O in concerto da Bruce Springsteen.

Quella canzone Guy Carawan non l’ha regalata solo al movimento dei diritti civili, ma al mondo intero.