La nascita, nel 2011, di WeChat (Weixin in Cina) costituisce uno dei momenti «fondativi» dell’attuale corsa cinese alla leadership mondiale nel campo tecnologico.

In Cina la progressione della «app delle app» – prodotta da Tencent, colosso che per capirci oggi vale più di Facebook – ha avuto ritmi impressionanti, di pari passo con l’aumento degli utenti internet. Oggi ha oltre un miliardo di account, più dei circa 800 milioni di utenti internet della Cina, grazie anche al suo funzionamento all’estero, per quanto diverso e più limitato che in patria. WeChat, una app inizialmente molto simile alla «nostra» Whatsapp, ebbe come primo risultato quello di trasferire nella app molte delle discussioni che fino a quel momento avvenivano su Weibo, il Twitter cinese che ha segnato tra il 2007 e il 2009 il momento migliore per alcune forme di attivismo in Cina. Ma WeChat ha dimostrato ben presto di essere un altro dei tanti strumenti, ormai, nelle mani della dirigenza del partito comunista. La capacità dell’app di diventare una sorta di contenitore di tutte le altre app, imponendo un modello e un «mondo», ha finito per aumentarne, con il tempo, le funzioni.

Oggi in Cina con WeChat si fa di tutto: si pagano servizi on line, ma anche off line, si trova lavoro, si prenotano vacanze, cene, taxi, si prenotano le visite mediche, si pagano le tasse e di recente, in alcune zone del paese, su WeChat risiedono anche i documenti di identità dei cinesi. Questa immensa mole di dati, non solo tanti ma di qualità, ha finito per indicare alla dirigenza cinese una strada ben precisa, ovvero la possibilità di tracciare ogni dato possibile e utilizzarlo in funzione securitaria.

Un esempio: le app che forniscono geolocalizzazione su WeChat consentono alla polizia cinese di registrare, nel caso, strani affollamenti di persone in posti «sensibili».

Tutti i dati di WeChat, infatti, per quanto appartenenti in teoria a un’azienda privata, possono essere richiesti dal governo cinese; di recente una ricerca ha dimostrato come WeChat abbia raccolto molti dei suoi dati in modo «illegale» per quanto riguarda la privacy, ma è successo pure di peggio, quando si è scoperto che Pcc e Tencent possono risalire anche alle discussioni che sono state cancellate dagli utenti. WeChat, dunque, anziché divenire un potenziale motore di organizzazione di forme di attivismo, seppure «con caratteristiche cinesi», è diventato il simbolo della tendenza della Cina di Xi, spedita verso la concezione di uno stato di sorveglianza.

A WeChat, infatti, dobbiamo aggiungere tutte le app e le videocamere in uso nelle città cinesi, che finiscono per regalare dati importanti agli organi di controllo del partito comunista. Lo stesso Xi Jinping, nel suo accentramento costante, è proprio a capo di un team dedicato a queste forme di controllo, tanto che di recente in un paper intitolato «The Road to Digital Unfreedom», il ricercatore dell’università di Berkeley Xiao Qiang scrive che «Una nuova generazione di tecnologia digitale, inclusa l’intelligenza artificiale, consentirà allo stato di identificare e reprimere in anticipo l’opposizione combinando gli indizi dai suoi numerosi canali di raccolta di informazioni di massa. In breve, la Cina è sulla buona strada per costruire la prima tirannia responsive del mondo, forse persino uno stato totalitario digitale. Sebbene possa essere un sogno divenuto realtà per un dittatore che spera di esercitare il massimo controllo sulla sua società, è un incubo per i cittadini cinesi e per quelli di tutto il mondo che apprezzano la libertà».