I migranti sugli scogli sono abbandonati ma non sono soli. Meriterebbero molto di più. Ventimiglia potrebbe diventare la capitale vetrina di questa Europa che non funziona, respinge e uccide. Lo è già ma solo per quei pochi che se ne sono accorti. Quei cinquanta metri di lungomare, tra gli scogli dei Balzi rossi e il confine francese, sarebbero lo scenario perfetto per guardare in faccia quella realtà che la sinistra si limita ad analizzare nei meeting e nelle raffinate analisi del giorno dopo, quando i fatti e le tragedie lasciano sgomenti.

La situazione sta precipitando e l’accademia dell’antirazzismo non funziona più, è troppo distante dai luoghi dove le cose accadono con tutte le loro contraddizioni. In una periferia romana o in un quartiere di Treviso, quando si mostrano, si mostrano sempre con gli stessi volti, sono razzisti, sono fascisti, è «gente esasperata». Sembra che non ci sia altro da dire e da fare. Ecco perché Ventimiglia è una eccezione clamorosa che dopo più di cinquanta giorni è già un’occasione persa, per tutti. Se in Italia esistesse ancora un movimento organizzato sinceramente antirazzista, ma anche pezzi disarticolati capaci di mettere a fuoco la situazione, quell’ultimo tratto di via Aurelia diventerebbe il posto dove essere presenti, ogni giorno, per mettere seriamente in difficoltà i governi d’Europa. Gli unici ad averlo capito, testardi, determinati, a modo loro anche ben organizzati, sono quei cinquanta migranti africani che dal 9 giugno si danno il cambio sugli scogli per chiedere al mondo di poter oltrepassare il confine e dirigersi verso nord. Di poter vivere.

La Francia li rispedisce indietro e l’Italia continua a comportarsi come se non esistessero, ma loro ogni giorno provano a varcare il confine. Per il governo sono fantasmi, molto meno di una seccatura. Il via vai tra il centro di accoglienza della stazione e la pineta di fronte al mare è continuo. I migranti, profughi sudanesi ed eritrei, mostrano una pazienza infinita. Quasi ogni giorno accade qualcosa a tenere viva la speranza. Può essere una partita a calcio, una pastasciutta, le chiacchiere con i ragazzi del Presidio permanente No Borders, una presenza fondamentale e discreta. Con fatica stanno cercando di fare rete con altre realtà organizzate: «Vorremmo che l’esistenza di questo luogo, oltre che essere uno strumento di supporto per gestire il flusso dei migranti, potesse servire anche per creare un movimento diffuso capace di battersi contro la logica dei confini e per la libera circolazione delle persone», spiega Lorenzo.

Dall’inizio è accampato in pineta, ci sono da organizzare lunghe giornate dove non accade quasi niente e non è facile abbozzare un programma. Sono i migranti a decidere cosa fare. E sarà così anche per le tre giornate di mobilitazione che cominceranno domani. «Ci aspettiamo un contributo da chi si occupa di immigrazione in varie parti d’Italia – spiega – parleremo di legislazione europea e assistenza legale. Poi dovremo attrezzarci per continuare, non ce ne andremo fino a quando i migranti decideranno di stare qui, Ventimiglia resterà sempre un punto di passaggio».

La sera, promette, ci sarà anche da divertirsi. Come l’altro ieri, anche se quella è stata una serata speciale. La comunità di San Benedetto del Porto (quella di don Gallo) martedì è andata a trovarli e insieme ai volontari si sono presentati anche Vauro e la band dei Tetes de Bois. I migranti hanno improvvisato un ritmo irresistibile percuotendo pentole e bastoni su un ritornello «scritto» da Ibrahim, 16 anni. Quel canto di libertà è stato inciso dal gruppo e adesso vogliono farne una canzone. Gli arrangiamenti verranno, ma il testo si può già canticchiare: We are not going back (non torneremo indietro). Andrea Satta, il cantante, ha spiegato che l’avevano pensata solo «come una suonata per voce e fisarmonica da tenere sugli scogli per accompagnare la spedizione di derrate alimentari». Poi l’intuizione: «È un messaggio di speranza e battaglia che abbiamo voluto riprendere perché come artisti abbiamo il dovere di farlo conoscere e portare in giro per il mondo. Ne faremo una canzone, una storia da raccontare che quest’estate porterà Ventimiglia in tournée».

Le foto di Nicola Bertasi

A Ventimiglia le diverse decine di migranti accampati sugli scogli, a pochi metri dalla frontiera francese, sono arrivati dal Sudan, dall’Eritrea e da altri paesi africani fuggendo guerre, conflitti e fame. Gli scogli sono diventati un rifugio. Inizialmente, dai primi di giugno, per scappare le cariche della polizia, quando ci si spinge dove si può, per evitare un manganello.

Negli ultimi 50 giorni in attesa di l’Europa apra le porte, i migranti hanno deciso di non spostarsi da lì. Hanno costruito le tende, recuperato le coperte e i materassi. Hanno preso possesso di quegli scogli affacciati sul Mediterraneo, dove volendo tirar dritto si arriva fino in Africa. Dagli scogli si vede Mentone e non si vede già più Ventimiglia (ma siamo ancora in Italia). Tutto scorre lentamente.

Un poliziotto guarda severo da dietro la transenna che significa che lì comincia la Francia. Il malmesso «duty free» conta il solito via-vai di turisti francesi che si accaparrano le bottiglie d’olio d’oliva a buon mercato.

La frontiera è chiusa, impenetrabile, rafforzata e severa. Bisogna esibire i documenti. Schengen? Non importa. I migranti celebrano il ramadan. Nessuno tocca cibo duranti gli interminabili digiuni pomeridiani con il sole a quaranta gradi. Dignità è una cosa che non si può raccontare (come diceva Bob Dylan). Dignità però è proprio Ventimiglia. La dignità è continuare la propria vita a testa alta come niente fosse del male. La presenza dei migranti diventa una silenziosissima protesta di dignità.

Diverse associazioni politiche e Ong assicurano una mensa quotidiana. Acqua, cibo e assistenza sono garantiti.
Il tempo passa, la frontiera non si apre. L’Europa non esiste.

Nicola Bertasi