Se è vero che in una autobiografia si scrive di se stessi, dei propri antenati, del proprio ambiente, familiare e non, della propria giovinezza e di un futuro visto ormai a posteriori, è presumibile che Evelyn Waugh, prima di mandare in stampa A little Learning, questo il titolo originale della sua Autobiografia di un perdigiorno (ottimamente curata da Mario Fortunato, Bompiani, pp. 370, € 28,00) si sia trovato anzitutto a risolvere la sempre delicata questione di come rendere irriconoscibili e tuttavia verosimili i coprotagonisti della sua storia, che sapeva bene sarebbe stata una sorta di romanzo. Dotato di quel wit geniale, ironico, anzi sarcastico, così proprio degli scrittori anglosassoni, Waugh si annuncia «perdigiorno», forse riferendosi al protagonista del noto romanzo di Eichendorff, con in quale ha in comune l’attrazione per il viaggio, ma non l’attitudine a vagabondare. Nella prima fase della sua esistenza andò piuttosto là dove i genitori lo inviavano e, più vanti, ormai ragazzo, si spinse dove il proprio rigore e le proprie esigenze biografiche gli suggerirono: per esempio ad arruolarsi; ma dei suoi tanti, successivi viaggi, e dell’esperienza maturata nella seconda guerra, non c’è in realtà traccia in questo volume, che si ferma all’anno del suo congedo dall’Università, il 1924.

Le prime cinquanta pagine, circa, contengono le ricostruzioni, invero non estremamente avvincenti, degli antenati di Waugh (ciò che rende meno stupefacente il fatto che finora questo libro non sia mai stato tradotto); quando però le fila del discorso si ricongiungono più direttamente alla vita dell’uomo nel frattempo diventato scrittore, il testo depone finalmente quell’aria di ricostruzione genealogica un po’ artificiosa e diventa racconto partecipato. Tra pietas e rimpianto Waugh descrive la propria come un’infanzia sostanzialmente felice, diffidando di psicologismi e dietrologie giornalistiche (divertente il suo resoconto di un’intervista in età matura) con quel fare «sarcastico» che sempre gli è stato riconosciuto, e che si esprime qua e là con giudizi graffianti su aspetti di persone da lui conosciute e della società inglese dell’epoca. Almeno fino a circa metà del racconto traspare una certa intelligente e autentica pietas per il passato in generale, e per il proprio in particolare, una sorta di rimpianto che non è semplicemente mesto: è piuttosto radicato nella consapevolezza di come i tempi descritti, appena prima della Grande Guerra, abbiano rappresentato una sorta di reale spartiacque, un confine tra un prima e il dopo che gli storici di professione non avrebbero ignorato. Waugh racconta di avere «amato la casa delle zie (figure femminili importanti nella sua formazione, assieme alla madre e alla governante nonché alla fidanzata del fratello, Alec, anch’egli scrittore) in quanto istintivamente sospinto verso un ethos… medio-vittoriano», sentimento destinato a dileguarsi in breve tempo.

Tanto più generano sorpresa alcuni passaggi sinceramente comici, ad esempio quello che riguarda il suo stesso nome, Evelyn generalmente utilizzato per le ragazze. Anticipando un successivo volume, purtroppo mai scritto, della sua Autobiografia, l’autore racconta come durante la guerra italo-abissina, raggiunta una remota postazione, le truppe schierate attendessero per l’appunto una Evelyn Waugh scrittrice; comparso l’uomo, tutti i mazzetti di fiori preparati scomparvero nell’imbarazzo generale, dinanzi allo sconcerto dello scrittore; ma a colpire di più sono i toni sinceramente affettuosi, sia pure talvolta per contrasto, con i quali viene dipinta la figura paterna: il suo «desiderio di dare piacere e quello di affetto sembravano indistinguibili» per questo signore il cui atteggiamento spesso istrionico non pareva infastidire il giovanissimo Waugh.

Nelle pieghe dell’ostentazione
Di se stesso, e in maniera molto convincente, scrive di essere sempre stato sedotto dalle cose ben fatte».
È una affermazione cui prestare fede e attenzione, se si vuole approfittare di questa Autobiografia per accostare le molte altre opere dello scrittore: sia il lamento verso i tempi andati, sia l’acredine e la diffidenza, quando non il disprezzo verso il presente che lo circondava, si radicano infatti nella sua nostalgia verso ciò che è compiuto, ciò che appare potenzialmente perfetto, si tratti del cibo o di un paesaggio, di una costruzione o di un testo narrato. Per quanto nelle autobiografie si cerchino i particolari che accennano al futuro scrittore, e per quanto effettivamente Waugh, forse anche supponendo questa curiosità nei suoi lettori, li abbia disseminati nel testo, siamo pur sempre davanti alla storia di quello che era allora un ragazzo, con le sue incertezze e disattenzioni, le sue passioni – da Ruskin ai Preraffaelliti, ad esempio – e alcuni eccessi. Dunque, come è buona norma, anche in questo volume conviene prestare attenzione non a ciò che viene ostentato, oppure ostentatamente tenuto segreto, bensì a quel che, senza infingimenti, si ritrova magari affidato a poche righe apparentemente casuali.