It’s not TV: Hbo. Non è televisione: Hbo. Nella seconda Golden Age della tv americana e all’alba delle nuove streaming wars, il leggendario copy che lanciò l’home box office network per molti versi regge ancora. Ci sono «le serie», e c’è Hbo. Anche nel futuro incerto, sotto i nuovi padroni AT&T (un’entrata in scena seguita dall’ esodo di una bella porzione dei vertici del canale), la rete cavo che fu di Ted Turner continua a rappresentare i profili più alti della produzione di «spettacolo da casa». Il che ne fa sotto tutti gli aspetti la dimora naturale di una serie come Watchmen (in Italia nel bouquet di Sky Atlantic), con il suo lineage mitico nella storia del fumetto Usa (anche se uno dei suoi creatori ha tolto il nome dai credits), la sterminata base di fan e l’ambizione idiosincratica che si presta molto bene alle tendenze «meta» di Damon Lindelof.

LO SHOWRUNNER di Lost e The Leftover, che si è già cimentato alla de-ri-costruzione di pesi massimi della pop cultura del fantastico, con le sceneggiature di Prometheus e Star Trek Into Darkness, qui sceglie un approccio più radicale, di segno opposto alla scelta fedele effettuata da Zack Snyder per l’adattamento del Watchmen prodotto dalla Warner Bros, nel 2009. Come il fumetto di Alan Moore e David Gibbons (pubblicato da DC tra il 1986 e il 1987) anche il Watchmen di Lindelof utilizza il genere (o almeno alcuni dei suoi «segni») per illuminare un angolo oscuro della storia americana. Anzi, piuttosto di un angolo, un baratro, dato che il primo episodio identifica i semi dell’azione e l’origine di alcuni dei personaggi chiave di questa incarnazione di Watchmen nel «massacro di Tulsa», l’attacco di banda armate bianche al quartiere afroamericano benestante di Greenwood («la Wall Street dei neri»), il primo giugno 1921, tutt’oggi considerato uno degli episodi più sanguinari della storia del razzismo a stelle e strisce. Invece dell’intervento in Vietnam, le guerre razziste provvedono infatti l’ossatura della serie, ambientata in una versione alternativa del nostro 2019, in un’America governata da Robert Redford (in carica del 1992!) ma non necessariamente resa migliore dai suoi ideali, in cui la polizia indossa maschere gialle, nere, rosse, da panda o (nel caso di Looking Glass, interpretato da Tim Blake Nelson) riflettenti, per poter girare armata (il bando una cortesia del Sundance Kid) e combattere il Settimo Reggimento, un’organizzazione di suprematisti bianchi che indossano cappucci come il Ku Klux Klan su cui però è impressa la maschera di Rorschach, uno dei personaggi principali del Watchmen di Moore and Gibson.

DA UN’ISOLA remota dove sembra esiliato, un altro dei protagonisti del fumetto, Adrian Veidt (Jeremy Irons) clona all’infinito la stessa coppia di domestici e poi ne catapulta i resti in aria (presumibilmente per calcolare come rientrare lui stesso sulla terra ferma), mentre in Oklahoma, Lady Trieu (Hong Chau) ha preso controllo del suo patrimonio. Alcuni supereroi appaiono fugacemente qua e là (sono fuori legge) ma – almeno per i primi episodi – nel concept di Linderof sembrano marginali.
Don Johnson, il capo della polizia e l’unico senza cappuccio, viene impiccato al primo episodio, forse da Louis Gossett Jr., che è il nonno di Regina King, poliziotta nascosta dietro alla falsa identità di pasticcera. Alle musiche, Trent Raznor e Atticuss Ross sembrano John Carpenter. Se il tutto sembra complicato è perché lo è . Al limite del geroglifico. Il che si traduce in montagne di letteratura da rete, in cui fan assolutamente entusiasti si appassionano a indagarne l’arcano e a scoprirne i labirintici riferimenti. Watchmen è decisamente più un piacere della differita che della visione stessa.