Nel 1989, a due anni dalla morte di Andy Warhol, il MoMA – che, in vita, non ne aveva seguito il lavoro con passione, negli acquisti tanto quanto nelle iniziative espositive – organizzò un’imponente mostra dedicata alla sua attività, dalla svolta sui Sessanta alle prove ultime.

Il vernissage di una così imponente iniziativa si celebrò in febbraio; nel marzo seguente, alla Grey Art Gallery avrebbe aperto – per la cura di Donna De Salvo – una più contenuta monografica, il cui elegantissimo catalogo è ancora una pietra miliare per gli studi. In maniera pionieristica – e non senza scontrarsi con qualche resistenza critica – tale progetto gettava infatti una luce inedita sulle prime esperienze professionali di Warhol a Manhattan nel corso degli anni cinquanta, vissute nella doppia veste di illustratore e vetrinista: titolo scelto per l’occasione fu Success is a job in New York, un rimando all’articolo apparso sulla rivista «Glamour», siglato Katherine Sonntag e parte di una serie dedicata alle donne in carriera, accompagnata da filiformi disegni autografi dell’artista commissionatigli a poche settimane dal suo arrivo sull’isola.

Anche oggi, mentre il Whitney è impegnato nell’allestimento per il prossimo novembre di un’ennesima rassegna dalle ambizioni ricapitolative, ordinata dalla stessa De Salvo, focus numerosi concorrono a ripensare gli esordi di Andrew Warhola, in fuga da Pittsburgh – centro in cui la sua famiglia, originaria della Slovacchia, si era domiciliata dopo lo sbarco negli U.S.A. – con un degree ottenuto presso il Carnegie Institute of Technology: una fase che ha attirato curiosità crescenti e la cui rilevanza è attestata dall’inesauribile ricchezza degli archivi del museo dedicatogli nella sua città natale.

Il più considerevole scandaglio condotto su un simile momento è la tesi di dottorato firmata nel 2000 da Neil Printz. Il suo studio – Other voices and other rooms: between Andy Warhol and Truman Capote – è infatti acuto nel rintracciare le radici figurative e culturali dei lavori d’esordio e della produzione appena successiva; d’altronde un’indagine siffatta, avveduta nell’ancorare le opere alle categorie del ‘camp’ e della ‘swishiness’, non sarebbe stata concepibile senza un volume che si costituisce per la bibliografia warholiana come un punto di svolta e cioè POPOUT, assemblato – fra gli altri – da José Esteban Muñoz per mettere alla prova l’artista e la sua ricezione attraverso gli strumenti della ‘Queer Theory’.

Non a caso i diversi saggi raccolti nel libro, uscito nel 1996, riservano ampio spazio al background familiare, alla formazione e all’educazione di Andy, nel tentativo riuscito di ricostruire un continuum di temi, linguaggi e intenzioni attorno alla virata più dichiaratamente pop delle sue proposte, quella avviata dal 1961-’62 con le personali tenutesi alla Ferus Gallery e alla Stable Gallery, fra Los Angeles e la East Coast; altrettanto significativamente, le iniziative museali o editoriali, suscitate nel corso del 2018 attorno a una stagione siffatta, indugiano su medesime prospettive critiche.

Basta guardare al catalogo della mostra Adman: Warhol before pop, la cui seconda tappa è stata ospitata per l’appunto a Pittsburgh, fra aprile e settembre (la precedente aveva inaugurato all’Art Gallery of South Wales, l’anno passato).

Concepito nella forma di un’edizione – riveduta e aggiornata – della scelta di pezzi apparecchiata nell’ ’89 dalla De Salvo (lo conferma il contributo in volume di Thomas Sokolowski, già direttore dell’Andy Warhol Museum), il percorso riassunto dai saggi e dalla galleria di immagini si sofferma con generosità su problemi come la presenza della mano materna nei prodotti di quei tempi (celebre è il ricorso, da parte di Warhol, a un lettering ispirato alla calligrafia elegante, antiquata di Julia Warhola), l’inserimento nell’entourage flamboyant di Gene Moore, display director per Bonwitt Teller e Tiffany & Co., le difficili collaborazioni professionali con l’affermata Hugo Gallery o l’avventurosa esperienza della Loft Gallery; in una parola, l’outsiderismo dell’artista, declinato con consapevolezza in scelte vestimentarie e di look spregiudicate, in grado di riconnetterne l’immagine, nell’ambiente virilizzato dell’action painting trionfante, a un milieu caratteristico, socialmente modesto, eccentrico, legato a una mitografia sospesa fra la Hollywood dorata e il Surrealismo mondano, aperto a una varia sperimentazione sul genere e l’identità.

Un’attenzione specifica era d’altra parte concessa nel percorso della mostra ai disegni erotici e ai ritratti maschili di quel periodo, letti attraverso la chiave del codice perfezionato dalla cultura omosessuale metropolitana, fiorita nella rete di feste private e bar per single al centro della vita condotta dal giovane Warhol una volta approdato a Manhattan; abitudini ‘da decoratore’, per riecheggiare un famigerato, sprezzante giudizio pronunciato da Capote a riguardo del ragazzo incontrato al suo arrivo a New York, il quale volle dedicargli nel ’52 il primo gruppo di disegni presentato al pubblico, Fifteen drawings based on the writings of Truman Capote.

Su un’analoga linea critica si colloca pure il volume di Nina Schleif,  Andy Warhol Drag & Draw (Hirmer Verlag, Monaco, pp. 144, euro 34,36), che ha il merito indiscutibile di sottolineare l’importanza, nell’attività grafica di Warhol, di due serie fin qui sfuggite a un’approfondita indagine formale o biografica.

L’autrice infatti mette assieme, oltre a un alfabeto figurato (costruito coll’impiego di icone femminili), un corpus di una cinquantina di fogli – figure singole, volti di uomini associati a vezzi di una parure muliebre, dai fili di perle, agli orecchini, ai cappellini piumati – cui vengono riconosciute coerenza stilistica e di soggetto, insieme a una cronologia compatta (1952-’53). Una galleria di ragazzi en travesti corrispondenti – a volte in maniera letterale – alla popolazione testimoniata dagli scatti del fotografo Otto Fenn, sodale di Warhol fino alla sua scomparsa. Questi, in una serie cospicua di immagini ‘private’, ha infatti documentato – nel corso degli anni cinquanta – la felicità e le consuetudini di una folta comitiva di frequentazioni amichevoli, legate per lo più dalla quotidiana routine di un’esistenza omosessuale, dai riti volti a un rimescolamento costante di ruoli e profili sociali.

In questa folla, al lato di essa, si staglia spesso – defilato, in solitaria – lo stesso Warhol, che di quel capannello dovette essere frequenza assidua, arrivando così a costeggiare altri circoli affini, personalità di spicco come Cris Alexander o John Butler.

L’appropriazione di simili immagini da parte dell’artista riecheggia, tematicamente, sequenze più tarde come quella, rinomata, di Ladies & Gentlemen (compiuta nel 1975); ma soprattutto avvia una dialettica complessa fra segno grafico, fotografia e ‘stile’ che sarà al centro delle riflessioni warholiane negli anni a seguire, anticipandone perfino in qualche misura la preferenza per la seriazione infinita. Non solo: il fatto che anche l’incompleto alfabeto femminile associ, fra le sue fonti prototipiche, volti popolari come le attrici Joan Crawford o Estelle Windwood, la ballerina Ann Pennington o la poetessa Marianne Moore, a visi desunti dalla stessa galleria fenniana, complica il concetto di ‘celebrità’, il rapporto intessuto dal giovane illustratore con lo showbiz e l’effimero spettacolare in una direzione non lontana da quella comune ai suoi lavori più tardi, ugualmente riconducibili a una sensibilità camp. Un’intuizione che cementa la cristallina osservazione di Muñoz, nel libro del 1996: «Andy Warhol was queer in more ways than one. To begin with, he was a fabulous queen».