Aby Warburg a Firenze, 1898

 

Tra il 1888 e il 1889 Aby Warburg si trovava a Firenze. Era arrivato in Italia insieme ad altri studiosi (c’erano, ad esempio, gli amici Hermann Ullmann ed Ernst Burmeister) per incontrare August Schmarsow, all’epoca professore a Breslavia, che stava dando vita a quello che, col tempo, sarebbe divenuto uno degli istituti specializzati per lo studio della Storia dell’arte più importanti al mondo: il Kunsthistorisches Institut. Per Warburg sarebbe stato il primo passo verso un lungo rapporto con la città gigliata, della cui arte egli si sarebbe fatto sopraffino esegeta.
Proprio a Firenze, nel contatto con Schmarsow, maturarono le prime idee relative al problema del movimento e della gestualità in pittura (soprattutto, ma anche in scultura) che sarebbero poi sfociate nella dissertazione dedicata a Sandro Botticelli, discussa con Hubert Janitschek a Strasburgo nel 1891. Lo studio del contesto fiorentino del Quattrocento – dalla filosofia neoplatonica alla nozione scientifica della prospettiva, all’arte dei grandi maestri del primo Rinascimento – costituirono per lo storico della cultura amburghese un terreno ricchissimo. Due anni prima, quando frequentava a Bonn i corsi di Carl Justi, aveva dedicato un seminario, nel corso dell’«inflessibile» professore (la definizione è dello stesso Warburg), al problema del Laocoonte «alla luce dell’arte del Quattrocento fiorentino». In uno degli appunti della scaletta, Warburg annotava: «Qual è il rapporto tra la vita di un periodo e il modo in cui l’uomo è rappresentato nell’arte di quel periodo, e come si connette tutto ciò con la concezione della vita dell’individuo?». A ben vedere una simile proposizione sintetizza già molte delle idee che dovevano aver fatto breccia nel pensiero dello studioso, e che egli avrebbe saputo far proprie al massimo grado, unendo le diverse anime tedesche della disciplina sul finire dell’Ottocento.
È l’ottobre del 1893. Warburg ritorna a Firenze, con alle spalle già alcune manifestazioni della profonda depressione che avrebbe segnato tutto il resto della sua vita. In una delle sue incursioni alla Biblioteca Nazionale incappò in qualcosa che catturò subito la sua attenzione. Si trattava di un volume miscellaneo che raccoglieva, tra le molte altre cose, 44 disegni, accorpati un po’ alla rinfusa, cosicché la connessione s’era offuscata: in essi sono raffigurate una serie di figure del mito (Apollo, le Parche, Diana, Venere e via così) e non. L’autore di quei disegni è Bernardo Buontalenti, artista e architetto mediceo che nell’arco di una lunga carriera aveva apparecchiato ogni sorta di scenari per le feste dei Granduchi, fossero esse battesimi, balli o rappresentazioni teatrali. Appoggiandosi a un’altra scoperta, il Libro dei conti di Emilio de’ Cavalieri, rinvenuto nell’Archivio di Stato, Warburg riuscì a ricostruire visivamente proprio una di quelle feste granducali.
Facciamo un salto indietro. Aprile 1589. Giunge a Firenze in pompa magna la futura consorte di Ferdinando I, Cristina di Lorena. Per festeggiare le nozze comme il faut tutta la città s’adopera in una serie di «feste sontuosissime», come recita il Diario di Giuseppe Pavoni, un opuscolo che descrive con dovizia tutti i passaggi dei lunghi festeggiamenti. Nella sala «tutta messa a oro con pitture e statue stupendissime» (Pavoni) va in scena La Pellegrina, una commedia di Girolamo Bargagli. A catturare l’attenzione dei presenti è però l’eccezionalità degli ‘intermezzi’ che s’alternano alle scene teatrali, «l’artificio de’ quali, scrive Pavoni, ha simiglianza più del divino che dell’umano». L’intermezzo è un ben preciso genere musicale, in cui si propongono delle scene, accompagnate da brani cantati, che ‘spartiscono’ la commedia che si rappresenta e con la quale non hanno legame tematico-narrativo.
Per gli intermezzi del 1589 l’ideazione spettava a Giovanni de’ Bardi, animatore di quella Camerata che aveva come obiettivo l’indagine e il ripristino dei valori della musica antica, greca in particolare. Anche se la critica musicologica ha in parte ridimensionato l’intermezzo come ‘antenato’ del melodramma, resta il fatto che lì si colgono i segni di qualcosa di nuovo che emerge, di quel quid che poco a poco erode i confini del genere e, beneficamente, aiuta a superarlo. Ognuno dei sei intermezzi era incentrato su un tema di ascendenza vagamente classica. Warburg comprende subito che i disegni che ha trovato sono proprio quelli relativi a questi intermezzi e che essi vanno connessi col Libro di Emilio de’ Cavalieri. In questo codice stanno infatti i prospetti delle stoffe, le note sul lavoro giornaliero, le varie paghe stanziate per i lavoranti e, infine, una miscellanea di materiali legati alla commedia. Ciò che quei dati fotografano è il gran da fare che si diedero le molte persone coinvolte per far riuscire al meglio la festa.
Questi ricco insieme, unito ad alcune incisioni rinvenute nel Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, permettono a Warburg di avviare la ricostruzione e lo studio di quegli intermezzi, anche sfruttando il ricco materiale visivo riscoperto. Lo scritto che si originò da queste scoperte, I costumi teatrali per gli intermezzi del 1589, fu pubblicato in italiano nel 1895 nella rivista dell’Accademia Istituto Musicale di Firenze. Compreso nel secondo volume delle Opere Complete (edito in Italia da Nino Aragno nel 2007), adesso quel saggio è riproposto secondo la prima versione a stampa italiana per i tipi di Abscondita, affiancato da uno scritto del musicologo Nicola Badolato (pp. 103, 15 ill., euro 19,00). Un saggio, questo di Warburg, che forse non è tra quelli più noti al pubblico dei frequentatori della sua opera, ma che ha in realtà più di una ragione d’interesse.
Al fianco dell’acribia quasi erudita, quella dello scopritore di carte dimenticate, sta tutta l’attenzione per i temi della sopravvivenza e mutazione dell’eredità classica. Come non sentir risuonare qui alcuni assunti che poi, col tempo, si sarebbero riversati nelle ricerche sulla riemersione dell’Antico, di cui il ciclo di affreschi fiorentini del Ghirlandaio fu un banco di prova centrale? Veri e propri tableaux vivants, quelle scene organizzate dal de’ Bardi, coadiuvato da Buontalenti e da tutte le altre maestranze, seppero squadernare davanti agli occhi dei convenuti una serie di elementi che essi, probabilmente, non colsero in tutta la loro stratificata simbologia, cosa del resto di cui fu ben consapevole Warburg.
Sono soprattutto il primo intermezzo (L’Armonia delle sfere) e il terzo (Il combattimento pitico d’Apollo) a catturare la curiosità dello studioso. In essi, infatti, è possibile cogliere tutto il travaso di elementi che dalla classicità arrivano ai disegni di Buontalenti. Appoggiandosi alla descrizione che degli intermezzi pubblicò Bastiano de’ Rossi, Warburg seppe individuare con precisione le forme di questo passaggio: è il caso delle figure femminili che chiudono il terzo intermezzo, e che lo studioso lega senza dubbi all’immagine della Ninfa, «una di quelle attraenti creazioni in cui il Quattrocento italiano seppe fondere in modo felice e tutto suo il genio dell’arte con il sentimento dell’antichità».
Questo di Warburg è un saggio che si pose, da subito, come punto di riferimento per i musicologi. Ma, a ben vedere, anche per gli storici dell’arte esso ha moltissimo da raccontare circa la necessità di tenere quanto più uniti possibile i diversi piani dell’indagine sull’arte e sulla civiltà del passato.