Il 15 agosto, mentre i Talebani entrano trionfanti a Kabul, sul Financial Times il presidente nigeriano Muhammadu Buhari mette in guardia circa la necessità di non abbassare la guardia contro i terroristi. Secondo Buhari, che in questi anni ha più volte annunciato di aver sconfitto Boko Haram, un nuovo fronte del jihad globale si è ormai aperto. L’argomento è semplice: è in Africa che le principali franchise del jihadismo globale, al-Qa’ida e Daesh, hanno trovato spazi di manovra e penetrazione, e dunque è in Africa che una nuova fase della war on terror va combattuta.

L’allarme di Buhari intercetta un sentire che si è diffuso sempre più tra opinionisti e politici occidentali. La narrazione è diventata bipartisan a Washington e nelle capitali europee: la war on terror non è finita e non può terminare con un segno di resa a Kabul, ma deve evolversi nei modi (uso della forza a distanza) e negli obiettivi (spostare il focus sull’Africa).

Tipicamente questa chiamata alle armi è seguita da una rapida panoramica degli sviluppi sui conflitti africani: dalla Libia al Mozambico, dal Sahel al Corno d’Africa passando per il Congo e il Lago Ciad.

In un crescendo esponenziale di massacri che coinvolgono sempre più civili, gruppi che si richiamano alla galassia jihadista si sono moltiplicati, dimostrandosi capaci non solo di attentati che sfidano le forze armate, ma anche di conquistare città e porzioni di territorio, sottraendole al controllo delle autorità statali ed amministrandole secondo i dettami della legge islamica.

In Mali, in Somalia, a Cabo Delgado, così come nel nord della Nigeria, i gruppi jihadisti sono stati in grado di intercettare vertenze di natura politica, economica ed etnica, apertesi con la rottura del contratto sociale stipulato tra stati deboli e comunità marginalizzate. Lo hanno fatto – si sostiene – alimentando escalation di violenza in cui ingrassano criminali transnazionali.

Figlia degli stessi schemi di cui è imbevuta la Guerra al Terrore, questa narrazione alimenta una visione del continente africano come spazio non governato e vuoto, infestato da una minaccia da gestire, disciplinare e contenere. Essa è fondata su un assunto fallace: l’idea che terrorismo jihadista sia un nuovo fenomeno in Africa. Si potrebbe andare lontano, fino alle mobilitazioni jihadiste africane dei secoli scorsi, oppure seguire le biografie di combattenti algerini andati a forgiarsi in Afghanistan negli anni 80, per stabilire nessi con la diffusione in Africa di correnti di islamismo politico di marca wahabita, di rigorismo salafita e di altre correnti sunnite e sciite.

Ma forse basta ricordare le bombe con cui al-Qaida nel 1998 colpisce l’ambasciata Usa in Kenya (220 morti) e la reazione americana, per comprendere come fin dai suoi esordi la global war on terror è stata ben presente sul continente africano, plasmandone le dinamiche politiche e di sicurezza.

È oggi impossibile analizzare conflitti e trasformazioni socio-politiche in Africa se non si considerano gli effetti di vent’anni di interventi e aiuti internazionali motivata con la lotta a terrorismo, estremismo religioso e altre varianti di radicalizzazione così ubique che si persa traccia di natura e dinamiche di propagazione.

Al punto che talvolta è difficile ricostruire nessi di causa ed effetto: si propagarono prima le kataib di al-Qaida a sud del Sahara, o venne prima dispiegata a nord di Bamako l’iniziativa anti-terrorista trans-sahariana voluta dagli Usa dopo l’11 settembre?

A vent’anni da allora, almeno tre sono le eredità lasciate al continente dalla war on terror.

In primo luogo, sul suolo africano sono emersi e si sono poi moltiplicati ‘stati controterroristi’: regimi più o meno autoritari la cui ragion d’essere e le cui modalità di funzionamento sono ridefinite in funzione della capacità di presentarsi – alla vista di massicci trasferimenti di budget, armi ed expertise – quali ‘implementatori locali’ della Guerra al Terrore. Questo, in un contesto di crescente rivalità geopolitica fra occidentali e altre aspiranti potenze, ha significato per i leader africani poter alzare il prezzo della propria lealtà di clientes. Fin dal lancio delle prime operazioni all’interno della cornice dall’operazione Enduring Freedom, l’azione internazionale ha mirato a rafforzare le capacità militari, di polizia e sorveglianza degli stati partner.
Ci troviamo così, nei paesi più poveri al mondo a fare i conti con una rendita di posizione, con atteggiamenti internazionali compiacenti verso il deragliamento del quadro politico rispetto a standard democratici: un assegno in bianco per il mantenimento del potere, o verso una gestione del governo da parte di apparati militari e di sicurezza, senza toccare le cause profonde delle insorgenze jihadiste. In un gioco di specchi e di co-dipendenza sempre più complessa, quasi tutte le espressioni di conflitto e violenza politica hanno finito con l’essere lette attraverso le lenti della war on terror.

Mali, Mozambico e Nigeria raccontano storie di ribellioni nate a partire da vertenze locali contro regimi corrotti, predatori e discriminanti, che godendo del sostegno internazionale hanno potuto esasperare dispute locali, talvolta (per esempio nella regione sahariana del Mali) lasciando agire la propagazione jihadista, così da compromettere l’autonomia delle popolazioni locali (i Touareg), salvo poi venirne travolti.

Secondo, nel quadro della lotta ai focolai di jihadismo africano, si sono testate e diffuse nuove pratiche e tecnologie di intervento e disciplinamento. Col fine di sigillare frontiere porose e limitare la mobilità di gruppi armati e criminali, stati a capacità amministrativa altrimenti estremamente limitata, in cui larghi segmenti della popolazione non hanno accesso a elettricità e acqua potabile, sono stati dotati delle più recenti tecnologie in ambito di controllo delle frontiere, nonché di classificazione e tracciamento biometrico delle proprie popolazioni.

Nel Sahel, queste tecnologie si stanno dimostrando strumenti preziosi anche per implementare politiche di contenimento e lotta ai movimenti migratori al centro dell’agenda politica dell’UE e dei suoi stati membri, Italia in primis.

Infine, in una sorta di profezia auto-avverantesi, la war on terror ha effettivamente finito col trasformare la natura stessa delle ribellioni e dei conflitti africani. Raccontati come elementi interconnessi di un unico arco di crisi jihadista, le diverse insorgenze hanno finito con l’appropriarsi, a livello di repertorio retorico e di azione, dell’immaginario e delle pratiche promosse da al-Qaida e Daesh. Emirati più o meno stabili e duraturi sono stati dichiarati in regioni periferiche del Mali, del Niger, del Burkina Faso, della Nigeria, della Somalia e del Mozambico.

L’Africa non rappresenta il futuro fronte del terrorismo; la war on terror è combattuta anche in Africa da più di vent’anni, mentre a guerra succede guerra, senza che sia in vista una fine.