Il generale si chiama Glen McMahon e ha gli occhi azzurri di Brad Pitt, ma dietro all’inscrollabile sorriso, simbolo di una ancor più inscrollabile convinzione nel successo della missione afgana, è facile riconoscere Stanley A.McChrystal, il generale 4 stelle a capo delle forze militari Usa in Afghanistan tra il 2009 e il 2010, quando Obama lo licenziò in tronco. Gran parte della responsabilità della sua caduta in disgrazia è dovuta a un fantastico reportage apparso su Rolling Stone, The Runaway General, in cui McChrystal e i suoi luogotenenti deridevano, a beneficio di uno stupefatto giornalista embedded, il presidente e la sua strategia. War Machine, distribuito sulla piattaforma di Netflix e nelle sala Usa, è tratto da un libro firmato dall’autore del reportage, Michael Hastings: The Operators: The Wild and Terryfing Inside Story of America’s War in Afghanistan. Prodotto per Netflix da Brad Pitt, e diretto dal regista australiano David Michod (Animal Kingdom), il film attinge a piene mani da una tradizione satirica che include Il dottor Stranamore, M*A*S*H, La seconda guerra civile, Wilson e Wag the Dog, con riferimenti più diretti alle avventure comico/militari sponsorizzate da George Clooney, Three Kings e The Men Who Stare at Goats. E un tocco di Clint Eastwood.

 

 

L’intento di questo Sturmtruppen del deserto è infatti quello di partire dal punto di vista dei militari piuttosto che da quello dell’elite liberal e pacifista che lo ha prodotto. L’esperimento è interessante, anche se non funziona del tutto, minato com’è -forse involontariamente- dall’interpretazione macchiettistica di Pitt, simile a quella molto divertente che diede, proprio al fianco di Clooney, in Burnt After Reading, ma che qui stona con il resto. Un macho convinto, e quasi privo di autoironia, come Russell Crowe (che appare per un buffo momento premonitore, alla fine) sarebbe stato molto più adatto.

 

 

Educato a Yale, multidecorato per il suo coraggio e il suo istinto strategico Glen McMahon è un uomo di principi sani e saldi, che dorme a malapena, macina una decina di chilometri di corsa prima di colazione e ama fedelmente, in ordine crescente di importanza: sua moglie (anche se non la vede quasi mai), i suoi soldati e gli ideali della sua patria. Sono quegli ideali, non l’immenso arsenale a stelle e strisce, secondo McMahon che permetteranno agli Usa di prevalere nel sabbioso vespaio afgano, in cui i suoi uomini remano a vista alle prese con una popolazione che non capiscono, degli obbiettivi militari contradditori e una leadership politica che guarda alla Difesa con accondiscendenza, se non addirittura con sospetto.

 

 

Ed è in virtù  di quegli ideali che il generale architetta un piano di contro-insurrezione che risulterà nella surge (operazione militare) di 30.000 uomini autorizzata di malavoglia da Obama. Il presidente, il suo staff e il suo dipartimento di stato sono presenze remote, disattente, mentre McMahon e i suoi se la vedono con Talebani, ieratici capi villaggio e il cinicissimo/pigro presidente Karzai (Ben Kinglsey, da Saturday Night Live). La loro una mission impossibile realisticamente parlando, ma anche già fuori dal tempo – e qui War Machine ha una traccia di malinconia eastwoodiana – come le sbronze, la solidarietà maschile e la tenerezza distante e cavalleresca con cui il generale tratta sua moglie. «Io non metto in dubbio la sua onestà o la sua buona fede – ma le dimensioni del suo ego», dice a McMahon (in Europa a chiedere l’appoggio alleato) una politica tedesca (Tilda Swinton), che è la voce del film. Con tre generali al governo e un presidente che ha già accennato a una nuova surge in Afghanistan, War Machine è un film imperfetto, ma un efficace cautionary tale.

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