Tessuti laceri, elmi e teschi poggiati sul petto, lamiere arrugginite di salsedine, passi strascicati, fori su un muretto e mani sopra la testa e, in alto, le scie dei missili a ricerca termica che sfilano tra gli aerei e il cielo blu notte. E quindi, di nuovo verso il basso, al di sotto del livello della strada, detriti che una volta erano una casa, calcinacci, polvere da sparo e pixel che si posano sugli schermi luminosi dei nostri smartphone ma è tutta superficie, l’unica traccia rimane nelle cronologie dei motori di ricerca. È finita? Ci si chiede scorrendo il vorticoso caleidoscopio formato da queste e altre immagini, attraversando i tre piani di ?War is over Arte e conflitti tra mito e contemporaneità, mostra visitabile fino al 13 gennaio al MAR-Museo d’Arte della città di Ravenna, a cura di Angela Tecce e Maurizio Tarantino.
«La guerra si avvicinava a noi due senza che ci siamo resi conto, e non avevo più la testa molto lucida», il viaggio di Louis-Ferdinand Céline nella notte della Grande Guerra inizia con una scena intima, intrisa di segreto e aspettativa. Ma poi, dopo aver scavato nelle trincee, il Novecento ha continuato il suo corso e cosa è successo? Pittura, fotografia, video, scultura, le Avanguardie, i movimenti, le controtendenze, le figure più influenti nella storia dell’arte di un contemporaneo che, improvvisamente, sembra così esteso, dai cadenti imperi mitteleuropei alle sabbie dell’Iraq, da Filippo Tommaso Marinetti e Pablo Picasso a William Kentridge e Marina Abramovich, passando per Andy Warhol, Alberto Burri, Anselm Kiefer, Alighiero Boetti Pino Pascali e Jan Fabre, tra gli altri. Un percorso intenso, filologicamente preciso ma senza cadere nell’autocompiacimento, lungo il quale il discorso si dipana in maniera ariosa, a tratti barocca, con ritorni e contrappunti, raccordato dalle installazioni diffuse di Studio Azzurro e scandito da tre sezioni tematiche – Vecchi e nuovi miti, Teatri di guerra. Frontiere e confini, Esercizi di libertà – che si intersecano lungo le stanze. La successione delle opere non è cronologica ed è proprio in questa sfasatura tra gli stili che si agita la sensazione di una profonda convergenza. Media, linguaggi e approcci che davamo per distinti, si mostrano dinamicamente coesi, come un agile tessuto sul quale sono rimaste impresse le interpretazioni visive di ideologie trionfanti e poi decadenti, egemonie, minoranze, eccidi. Testimoni di violenti spostamenti d’aria e profonde vibrazioni, di contorsioni dei corpi e fratture dei territori, gli artisti hanno intrapreso il compito di elaborare il conflitto, i suoi processi e i suoi residui, attraverso la manipolazione di una materia visiva collettiva, condivisa. Perché dove la documentazione cronachistica atterrisce, blocca o anestetizza, il segno estetico dà luogo a nuove espressioni del pensiero, sposta il baricentro della Storia, nuova vita che sfocia.
Riconosciamo il volto di Lucio Fontana, i baffi ancora neri, la sua figura è in equilibrio precario su un cumulo di macerie che, prima del 1945, era il suo studio di Milano. La divisione tra il dentro e il fuori è solo il ricordo di una deflagrazione, gli ambienti non sono più riferibili a una logica costruttiva ed è forte, cruda e paradossale la tentazione di vedervi un documento assimilabile al Manifesto dello Spazialismo. Alfredo Jaar aveva già esposto questa grande fotografia, Lucio Fontana visita il suo studio tornando dall’Argentina, al Padiglione cileno della 55ma Biennale di Venezia, per raccontare la presa di responsabilità della coscienza che fronteggia l’orrore e lo trasforma. Basta una data, una successione numerica, per ricostruire il contesto storico e le nostre idee sull’argomento, si tratta proprio della Seconda Guerra Mondiale ma potrebbe essere la Corea, il Vietnam, la Jugoslavia, oppure la postmoderna Las Vegas, mostrata, al massimo del suo splendore, nel lavoro di Francesco Jodice.
Pantaloncini e camicie colorate a maniche corte, capelli impomatati e cestini per il picnic e quando finalmente arriva il momento, gli applausi scrosciano, per celebrare le evoluzioni gassose del grandioso fungo atomico, irrazionalmente verticale nel deserto del Nevada Test Site, tremila chilometri quadrati di suolo americano dedicati allo spettacolo pubblico dei megatoni. Furono 104 le bombe all’idrogeno che detonarono nella grande regione compresa tra l’Arizona, lo Utah e il Nevada, fino agli anni sessanta. Con piglio scientifico, allestendo una sorta di studio con materiale d’archivio, tra fotografie e registrazioni d’epoca, Jodice ci racconta come è stato suadente il sogno americano, accogliente come Miss Atomic Bomb Nevada 1953, bionda pin up vestita solo della nuvola fungiforme che ci sorriderà per sempre, dal grande poster.
Dopo una sequenza così densa di suggestioni e materie, l’ultima stanza chiude con un coup de theatre che, come nella migliore tradizione narrativa, lascerebbe presagire una ipotetica continuazione. L’enorme composizione fotografica di Thomas Hirschhorn emerge con eleganza lancinante. Nella serie dei Pixel Collage, l’artista svizzero non accetta compromessi e, distorcendo la sua esperienza da pubblicitario, sovraccarica il rutilante meccanismo di appropriazione delle immagini. Due occhi chiusi in primo piano, un volto deformato e attorniato dall’alone lasciato dall’ingrandimento smisurato dei pixel, un offuscamento che lascia immaginare corpi di modelle e vestiti glamour. Un collage traumatico, che coinvolge i due capisaldi visivi della nostra epoca: l’immagine digitale, perfettamente definita, e il suo contrario, ciò che è sfumato, il grigio dell’immagine censurata che assurge a timbro di veridicità. Sulla parete opposta, in una sorta di dialogo assoluto tra macabre vanitas, le serigrafie leggere ed eleganti delle Electric Chair del 1971 di Andy Warhol.
La mostra è corredata da un approfondito catalogo, con testi dei curatori e di Maurizio Maggiani, Caterina Bon Valsassina, Gennaro Carillo e schede di tutte le opere.