Non senza eccedere in un giudizio lusinghiero e tuttavia comparativo, il saggio di Walter Scheidel è stato messo a confronto con quello dell’economista Thomas Piketty sulllo sviluppo capitalista. Una comparazione non molto apprezzata da Scheidel, che alle diseguaglianze ha dedicato molto tempo e attenzione nella sua attività di ricercatore e docente universitario, fino alla pubblicazione del saggio La grande livellatrice (Il Mulino, pp. 639, euro 35) dove la violenza è ritenuta il mezzo usato per ridurre le disuguaglianze, una tendenza che per questo storico statunitense non necessariamente coincide con un miglioramento delle condizioni di vita nelle società moderne.

Docente alla Stanford University, Scheidel ha pubblicato alcune monografie dove l’alternarsi di dati statistici, l’analisi dei documenti dell’epoca e la loro interpretazione hanno offerto letture approfondite dei fenomeni studiati – il ruolo della scienza nelle società antiche, l’incidenza dello schiavismo nello sviluppo economico. C’è però una costante nei suoi studi, che riguarda appunto il ruolo delle disuguaglianze e della violenza nella storia umana: due fattori non certo destinati a scomparire. La permanenza del primo fattore è stata infatti sempre accompagnata dalla violenza, che si è manifestata in varie maniere: la guerra, la rivoluzione, le epidemie. Una lettura dunque molto distante, se non opposta a quella di Piketty o di Anthony Atkinson e Branko Milanovic, intellettuali liberal che vedono le disuguaglianze come la bestia nera del capitalismo finanziario, invitando a una mobilitazione contro i loro effetti distruttivi del tessuto sociale e culturale. Per Scheidel, invece, non c’è stata una radicalizzazione delle disuguaglianze, bensì una loro diminuzione nel corso del tempo e una diversa «articolazione» tra disuguaglianze relative e assolute.

Come questo abbia determinato un cambiamento nelle società contemporanee è l’oggetto anche della lectio magistralis che lo studioso terrà a Bologna sabato 23 novembre nell’aula magna di Santa Lucia (ore 11.30, via Castiglione 36)

Lo storico Walter Scheidel

Nel suo «La grande livellatrice» sostiene che le diseguaglianze sono l’esito di processi storici. Nel libro usa l’immagine di quattro grandi cavalieri che ne favoriscono la comparsa e lo sviluppo. Chi sono questi cavalieri?
Sono l’equivalente dei quattro cavalieri dell’apocalisse. In questo caso si chiamano guerra, rivoluzione, collasso degli Stati, epidemia. Ognuno dei cavalieri ha favorito la riduzione delle differenze tra ricchi e poveri, senza per questo cancellarle. Le diseguaglianze sono da considerare una costante della storia umana. Ciò che è chiaro è che i Cavalieri dell’apocalisse hanno provocato centinaia di milioni di morti e una crescita della violenza nelle relazioni sociali. Meno indagate sono le dinamiche che alimentano.

Quale dunque il ruolo che hanno esercitato questi cavalieri?
Per molti storici, le epidemie e il collasso degli Stati sono gli unici indicatori affidabili nell’evidenziare il ruolo della violenza nelle società. La formazione degli Stati ha creato gerarchie e una asimmetria di potere che hanno legittimato e rafforzato le diseguaglianze già esistenti. Il loro collasso ha però significato anche il collasso del sistema di diseguaglianze sui quali erano basati. La caduta dell’Impero romano ha visto, ad esempio, un impoverimento generalizzato dell’élite imperiale.
La peste e le epidemie medievali hanno invece favorito una riduzione delle disuguaglianze a causa delle morti che hanno provocato e della conseguente riduzione del numero di lavoratori e artigiani. Meno erano gli artigiani, meno ricchezza producevano, meno possibilità c’era di usufruire di quella ricchezza da parte delle élite. Sappiamo, infatti, che le epidemie hanno determinato una crescita del costo del lavoro, diventato con la morte di decine di milioni di persone, una risorsa scarsa; altrettanto importante è stato l’aumento del prezzo della terra. Questo ha influito negativamente sulla crescita dei redditi e delle rendite dei ricchi, mentre i poveri hanno visto crescere le proprie entrate.

Ma nel Novecento il quadro non si è modificato?
In effetti, il ventesimo secolo ha visto scemare questi due fattori (la crisi degli Stati e le epidemie, ndr). Insomma sono diventati due cavalieri meno rilevanti nelle dinamiche di una realtà ormai industriale. Nel ’900 un ruolo decisivo nello sviluppo economico e del capitale lo hanno svolto le due guerre mondiali. Con i conflitti mondiali gli Stati nazionali sono infatti intervenuti nell’agorà economica per evitare crisi catastrofiche, innalzando significativamente le tasse al fine di pagare gli altissimi costi della guerra. Un intervento che ha ridotto le possibilità di profitto per le imprese e ridotto la ricchezza delle élite. Anche in questo caso abbiamo dunque assistito a una riduzione delle disuguaglianze. Il clima da mobilitazione nazionale ha inoltre favorito la messa al lavoro di gran parte della popolazione attraverso la coscrizione obbligatoria. Con le due guerre mondiali siamo entrati in una situazione che potremmo definire di piena occupazione. Anche in questo caso abbiamo visto una redistribuzione della ricchezza.

Qual è stato invece l’impatto delle rivoluzioni in questo ambito?
La guerra alla quale ho fatto riferimento è una guerra totale che ha visto una mobilitazione di tutta la popolazione e una significativa riduzione della ricchezza causata dai bombardamenti che hanno distrutto intere città. Anche le rivoluzioni – quella sovietica guidata da Lenin sul finire della Prima guerra mondiale e quella di Mao durante le Seconda – hanno contribuito, in quanto mobilitazione totale della popolazione, a ridurre le disuguaglianze nelle società, sia direttamente che indirettamente. Direttamente attraverso una politica di espropriazione, di redistribuzione e di collettivizzazione dell’agire economico. Indirettamente perché ci sono state politiche di riduzione delle disuguaglianze in tutto il mondo al fine di evitare il contagio rivoluzionario. Dunque possiamo dire che c’è stata sì una tendenza alla riduzione delle disuguaglianze, ma questo non ha significato tuttavia la loro scomparsa.

Lei mette l’accento sulla differenza tra disuguaglianze relative e assolute. Come ha operato questa diversità nello sviluppo sociale?
Le differenze relative misurano le quote di reddito e di ricchezza che vanno ai diversi segmenti della popolazione. Quelli dei redditi sono in genere indicatori attentamente e costantemente controllati dagli esponenti politici e dagli economisti per l’evidente importanza che rivestono nel determinare la stabilità, l’efficienza e il benessere di una nazione. Le differenze assolute misurano invece la distanza di reddito tra un gruppo e l’altro della popolazione. Prendiamo la situazione domestica delle società europea e statunitense. Facciamo l’ipotesi che il 10 per cento della popolazione più povera abbia un reddito annuale di 10mila euro, mentre l’equivalente 10 per cento della popolazione più ricca possa contare su risorse annuali di 100mila euro. Possiamo verificare a distanza di tempo che c’è stata una crescita di reddito da 10 a 20 mila euro per i poveri e da 100 a 200mila per i ricchi. Sono variazioni significative, ma che non cambiano la quota della ripartizione di reddito tra la popolazione. Tendiamo però a dimenticare che è il raddoppio da 90 mila a 180 mila euro a fare la differenza perché modifica le possibilità di scelta e di vita in maniera significativa. Quello che scompare spesso dalla discussione pubblica è proprio la centralità delle disuguaglianze assolute nel definire lo stato di salute o di crisi di una società.

Nei suoi studi il reddito rappresenta l’indicatore privilegiato per determinare la profondità o meno delle disuguaglianze. Esistono però altri indicatori: quello razziale, di genere, di accesso alla formazione e alla conoscenza, che hanno un ruolo sempre più rilevante nella vita sociale, politica e economica. Cosa ne pensa?
Non nego che siano disuguaglianze che hanno avuto e hanno anche oggi un ruolo nella vita delle nostre società. Ma dobbiamo constatare il loro declino. Le donne, gli omosessuali e le lesbiche hanno conquistato diritti significativi; il razzismo è invece stigmatizzato e spesso combattuto attraverso le politiche di «cittadinanza attiva».

Nella storia del lungo Ventesimo secolo quindi abbiamo assistito a due tendenze presenti nel capitalismo: la volontà politica e il desiderio di superare le diseguaglianze e la loro riproduzione da parte dei sistemi dominanti nel produrre la ricchezza. È così?
Le ineguaglianze sono una presenza costante nella storia umana. Non nego però l’esistenza di una tendenza tesa a ridurre le disuguaglianze. Ma le disuguaglianze sono sempre lì. Si riproducono. Sono una delle costanti della storia umana. Pensare di cancellarle significa forzare questa costante dell’essere umano.

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