Di sé racconta che la decisione di diventare scrittore è arrivata dopo aver letto Il colore viola di Alice Walker, il romanzo uscito all’inizio degli anni Ottanta dal quale Steven Spielberg ha tratto un film di enorme successo – ben 11 nomination agli Oscar – che racconta la condizione delle giovani afroamericane nel sud degli Stati Uniti nella prima metà del ventesimo secolo. Del resto, la sua formazione si è compiuta sulle opere di Raymond Chandler e Dashiell Hammett come sui libri di Albert Camus, su tutti Lo straniero, mentre tra i suoi romanzi più fortunati ce n’è uno che celebra in modo affascinante e approfondito, ancor più di molti saggi, uno dei miti fondanti la cultura nera degli Stati Uniti: il blues e la figura di Robert Johnson, il chitarrista del Mississippi che secondo la leggenda avrebbe stretto un patto con Satana per inventare la musica che darà voce prima ai neri nelle piantagioni del sud e quindi alla loro migrazione verso le metropoli del nord, a cominciare da Chicago (La musica del diavolo, Marcos y Marcos, 1997).

FIGLIO DI UN NERO della Louisiana e di una donna ebrea la cui famiglia era emigrata dalla Polonia dopo la guerra, nato nel sud-est di Los Angeles nel 1952 e cresciuto nel quartiere di Watts che di lì a pochi anni, nell’estate del 1965, avrebbe conosciuto una delle più grandi rivolte razziali della storia americana, una settimana di scontri violenti domati solo dall’intervento della Guardia Nazionale, era forse destino che Walter Mosley diventasse qualcosa di più di un valido autore di romanzi polizieschi.

Tra i protagonisti del noir americano degli ultimi decenni, dal suo esordio nel 1990 ha pubblicato oltre una sessantina di opere che spesso spaziano anche al di là del genere fino a spingersi verso la science fiction e l’afrofutirismo, Mosley ha costruito un intero universo narrativo che per certi versi sembra rileggere alcune delle epoche decisive della recente storia del Paese attraverso una filosofia della strada e una memoria orale della vita dei neri.

AL CENTRO di questa epica minore, priva di retorica ma caratterizzata da un’estrema lucidità, la figura del detective Ezechiel, «Easy», Rawlins protagonista di oltre una quindicina di romanzi – molti dei quali pubblicati anche in Italia, l’ultimo lo scorso anno da Bompiani, Charcoal Joe (pp. 416, euro 18) – : un veterano nero della Seconda guerra mondiale che ha lasciato il Texas per cercare fortuna a Los Angeles. Sistemato in qualche modo nella zona di Watts, Easy assisterà, e sarà spesso suo malgrado coinvolto, nei conflitti che attraversano la metropoli californiana in un periodo decisivo, compreso tra il ritorno a casa dall’Europa dei reduci e il pieno dispiegarsi della guerra del Vietnam: anni nei quali l’America segregazionista vedrà crescere il movimento per i diritti civili e la stella selvaggia del Black Power.

Grazie alla lodevole iniziativa dell’editrice lettera 21, torna ora in libreria Il diavolo in blu (pp. 264, euro 18, traduzione di Bruno Amato) che di Mosley e del suo bizzarro privé, perplesso rispetto alla realtà che lo circonda ma esente da ogni sorta di cinismo, segnò il debutto nel 1990.

SIAMO A LOS ANGELES nel 1948 e Easy Rawlins non è ancora diventato un investigatore, è solo un giovane nero che tornato dalla guerra fatica a pagare le rate per riscattare l’ipoteca che grava sulla sua casa. Per questo finirà col farsi coinvolgere da DeWitt Albright, un bianco che dice di essere stato un tempo avvocato in Georgia ma che in città si muove come un gangster, nella ricerca di Daphne Monet, una donna bianca che frequenta i locali jazz della città e i neri che vi si incontrano. Ovviamente saranno guai e tra cadaveri che spuntano da ogni parte a venirgli in soccorso ci penserà un suo vecchio amico di Houston, «Mouse» Alexander, un ragazzo con cui è cresciuto prima che quest’ultimo diventasse uno spietato killer.

In guerra Easy ha imparato suo malgrado ad uccidere, ma l’odio dei bianchi con cui si dovrà misurare fin da questa sua prima indagine, quello lo conosce da quando era bambino, anche se ancora non lo ha mai capito. È in momenti come quelli che una voce gli parla, una voce dura, «non le importa se ho paura, se sono in pericolo. Si limita a guardare i fatti, solo i fatti, e a dirmi cosa devo fare». Ed è così che ogni volta Easy ce la fa.