L’articolo di Walter Benjamin, che qui presentiamo ai lettori e alle lettrici de «il manifesto», in realtà è una lunga nota che compare nella prima versione dattiloscritta de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Battuto tra la fine del 1935 e gli inizi del febbraio 1936, il dattiloscritto fu ritrovato nell’Archivio Horkheimer – biblioteca dell’Università di Francoforte – negli anni Ottanta del secolo scorso e poi pubblicato, nel 1989, nel volume VII dell’edizione tedesca delle opere complete di Benjamin.

La ricostruzione filologica completa del saggio con il suo relativo tormentatissimo destino editoriale è cosa molto complessa, da addetti ai lavori. Per farla breve si dirà soltanto che la versione de L’opera d’arte in cui compare questa nota è molto diversa da quella «classica», tradotta per Einaudi nel 1966 da Enrico Filippini e presentata ai lettori da Cesare Cases. Questa si basava a sua volta su ciò che il testo era diventato tra le mani del filosofo tedesco fino al 1939 e che i coniugi Adorno avevano inserito nella prima raccolta di scritti benjaminiani uscita nel 1955. Ironia del caso volle che solo una versione francese vedesse la luce vivo Benjamin, quella uscita nel maggio del 1936 sulla rivista dell’Istituto di Francoforte nella traduzione d’autore di Pierre Klossowski.

A partire dal 2011 si sono succedute una serie di edizioni di questa prima versione dattiloscritta de L’opera d’arte. Da segnalare quelle pregevoli di Andrea Pinotti e Antonio Somaini nel volume a loro cura W. Benjamin, Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media (Einaudi, pp. 421, euro 25), e quella, altrettanto preziosa, di Giulio Schiavoni in Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e altri saggi sui media (Rizzoli, pp. 239, euro 11). Prima di queste, essa giaceva dimenticata nel volume VI dell’edizione italiana delle Opere complete di Benjamin, pubblicato da Einaudi nel 2004.

L’adesione al marxismo

Si chiederà perché tanti benjaminiani italiani, e tra i più importanti, abbiano aspettato più di vent’anni dall’edizione tedesca, che così bene conoscono, prima di mettere mano a un’operazione editoriale di questa portata. Si risponderà che il comunismo doveva essere stato ben relegato nel retroscena della Storia dalla controffensiva neoliberista, prima di offrire ai lettori la versione de L’opera d’arte in cui, per chi non lo avesse mai capito o voluto accettare, Benjamin non fa altro che dimostrare la sua militanza nelle fila del marxismo. Si dirà, allora, che questo ritardo non è casuale, è dipeso da quel blocco culturale di matrice filosofica, funzionale alle strategie riformiste del vecchio Pci, che impegnò, agli inizi degli anni Ottanta del Novecento, le migliori «menti» e i migliori «cuori» di una generazione per recidere ogni legame tra Benjamin e la tradizione marxista, puntando ora sul pensiero della crisi, ora sull’estetica, ora sulla morale, ora sul linguaggio, ora sull’ebraismo, ora sulla letteratura, ora sulla spiritualità. Come si vedrà leggendo questo articolo, l’unico terreno su cui Benjamin accetti di ingaggiare battaglia, è quello politico.

Non è un caso che un controverso materialista storico del calibro di Adorno ritenesse questa nota, come scrive in una lettera del 18 marzo 1936, degna di stare accanto a Stato e rivoluzione. In realtà, non è a Lenin che bisogna riferirsi – sarebbe inorridito davanti a quello shock che spontaneamente trasforma una massa in un insieme di quadri dotati di coscienza – quanto piuttosto a Rosa Luxemburg che in quello stesso shock avrebbe visto la scintilla che trascina e trasforma nel corso della lotta quegli strati proletari privi di coscienza di classe, ma forti di disposizione rivoluzionaria. Detta altrimenti, Sciopero di massa contro Stato e rivoluzione, per questo la dodicesima delle Tesi sul concetto di storia è dedicata alla Lega di Spartaco.

Questo ritorno in forza su L’opera d’arte, allora, è tanto il segno evidente di un senso di colpa «scientifico» per aver così lungamente trascurato un testo così importante, quanto quello di una cattiva coscienza che, pur sapendo di aver sbagliato, continua ad indugiare nel suo errore e a rivendicare ora al pensiero della crisi ora all’estetica e così via, il senso «autentico» del saggio benjaminiano. In breve, nelle nuove edizioni de L’opera d’arte, viene ribadita l’estraneità dell’autore dal marxismo.

Attualità contingenti

Questa lunga nota, però, ha valore di lapsus e spetta al pensiero comunista farsene carico. Se c’è un campo di forze in cui questo articolo si inserisce spontaneamente, è quello rappresentato dal dibattito attualmente in corso nella Cgil sui temi dell’organizzazione. Nella relazione introduttiva ai lavori del seminario svoltosi il 30 settembre nella sede della Cgil Roma – Lazio, Ernesto Rocchi ha precisato due punti molto importanti: la solidarietà come valore fondante del sindacato e la necessità di nuove forme di proselitismo capaci di «fare» aggregazione collettiva, a fronte di una crisi di identificazione nel lavoro come ideale condiviso.

Se, come auspica Rocchi, le camere del lavoro (nobile organo del sindacato) dovessero davvero tornare ad aprire le loro porte alla società – riconfigurando così il gramsciano dalla classe al popolo – e questo in nome di quella solidarietà che dovrebbe legare tutti i lavoratori e le lavoratrici della terra, allora, che questa solidarietà non smetta di essere intesa in senso benjaminiano, ossia come strumento che sciolga la compatta indifferenza della massa e in quanto nuova leva di formazione per la coscienza e lotta di classe.