C’è un personaggio che accompagna, nascosto nel profondo permanente ed immutabile degli archetipi infantili, tutta la vita di Walter Benjamin; un «chi è» che troviamo armeggiante nei nascondigli immaginali in cui il filosofo dei Passages ha voluto esplicitamente collocare la scaturigine del suo pensiero. Un essere metaforico che si nasconde nel buio più recondito da cui originano le sue folgoranti intuizioni, e che da quella postazione gli disamina la visione delle cose.

Questo personaggio ha solo una speciale richiesta, che fa per perpetrarsi nel tempo e nel ricordo di altre generazioni, eternizzare la sua essenza mutandone la forma, come avviene per ogni immortalità simbolica: chiede che il suo nome resti segreto. In caso contrario egli sparirebbe, e con lui il mondo che lo ospita. È il dybbuk di Walter Benjamin: l’«omino con la gobba» che troviamo nascosto anche nell’automa giocatore di scacchi della prima Tesi sul concetto di storia. «È noto che sarebbe esistito un automa costruito in un modo tale da reagire ad ogni mossa di un giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, con una pipa in bocca, sedeva davanti alla scacchiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di specchi veniva data l’illusione che vi si potesse guardare attraverso da ogni lato. In verità c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo marchingegno si può immaginare nella filosofia. Vincere sempre deve il manichino detto «materialismo storico».

Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere». Ma questo «nano gobbo», per ammissione dello stesso Benjamin, è in realtà un suo «doppio», il dybbuk che lo possiede e lo spinge a fare ciò che vuole, così dirà nel suo saggio Avanguardia e rivoluzione, citandolo come imparentato ai personaggi scanzonati, vagabondi e gioiosi di Robert Walser «che si muovono nella notte, dove essa è più nera; una notte veneziana, se si vuole, illuminata dai deboli lampioni della speranza, con qualche luce di gioia negli occhi». Il dybbuk, nella tradizione popolare ebraica polacca e tedesca, è lo spirito disincarnato al quale è stato vietato l’ingresso in paradiso per aver commesso peccati mortali, come il suicidio per amore. Ad alcune di queste anime, per imperscrutabili motivi, viene data la possibilità di emendarsi condividendo l’anima di un altro corpo, ed avere così una seconda possibilità.

Nelle vecchie sinagoghe di Berlino, quando Benjamin era ancora bambino, si narrava anche che i dybbuk fossero fuggiti dalla gehennaa, un termine ebraico traducibile liberamente con «luogo dei miasmi». Ma ciò che dà il senso ultimo del dybbuk è l’etimologia della parola, che deriva dall’ebraico davok, «attaccarsi»: il dybbuk dunque è un qualcosa che si attacca ad un vivente per coabitare in esso, in senso ampio una «possessione». Questa simbiosi forma un dibbukim, ed è così che descrive la propria relazione con l’«omino gobbo» il filosofo berlinese in una lettera all’amico Gershom Scholem: «conserva le mie immagini, io non posso dividermi da lui», come ad evocare qualche cosa di determinativo per tutto il suo essere. Questo personaggio appare la prima volta nella raccolta di immagini Infanzia berlinese, edita postuma nel 1950 a cura dell’amico Theodor Adorno: «Nel 1932, mentre ero all’estero, iniziai a rendermi conto che presto avrei dovuto dire addio per molto tempo, forse per sempre, alla città in cui ero nato… Nella mia vita interiore avevo più volte sperimentato come fosse salutare il metodo della vaccinazione, lo seguii anche in questa occasione e intenzionalmente feci emergere in me le immagini – quelle dell’infanzia – che in esilio sono solite risvegliare più intensamente la nostalgia di casa.

Cercai di contenerla restando fedele non al criterio della causale irrecuperabilità biografica del passato bensì a quella, necessaria, di ordine sociale. Ciò ha comportato che i tratti biografici che si delineano piuttosto nella continuità che nella profondità dell’esperienza, in questi brani restino del tutto sullo sfondo. E con essi le fisionomie – quelle della mia famiglia al pari di quelle dei miei compagni. Mi sono invece sforzato di impadronirmi di quelle immagini in cui l’esperienza della grande città si sedimenta in un bambino della borghesia. Ritengo possibile che a tali immagini sia riservato un particolare destino. Non sono ancora attese da forme ben modellate come quelle di cui, nel sedimento della natura, da secoli dispongono i ricordi di una infanzia trascorsa in campagna. Le immagini della mia infanzia nella grande città invece sono forse idonee a preformare nel loro intimo l’esperienza storica successiva. Almeno in queste, spero, appare comprensibile quanto colui di cui qui sui parla in una fase successiva fece a meno della sicurezza che era toccata alla sua infanzia».

Così Walter Benjamin motiva la ricerca delle sue immagini-guida nell’introduzione di Infanzia berlinese. Qui il tema del ricordo, della recherche di tipo proustiano, si alimenta, ma solo in apparenza, di un percorso metropolitano che, però, finisce inevitabilmente per convergere verso quel personaggio attorno al quale, per esplicita ammissione e scelta dell’autore, gravitano tutte le immagini capaci di «preformare nel loro intimo l’esperienza storica successiva». Qui Benjamin allude, ancora una volta, alla «debole forza messianica» di certe immagini, forse in grado di salvare un futuro presente sul quale già si stendeva minacciosa l’ombra incombente del nazismo. Theodor Adorno bene identifica questo nesso quando, nella postfazione alla prima edizione della raccolta afferma: «Infanzia berlinese è stata scritta all’inizio degli anni Trenta… Le immagini che il libro fa emergere fino ad una sconcertante vicinanza, non sono né idilliache né contemplative. Su di loro si stende l’ombra del reich hitleriano. Come in sogno, congiungono l’orrore che questo suscita a ciò che è stato. Di fronte alla dissoluzione del proprio passato biografico, l’intellettuale borghese, con terrore panico, prende consapevolezza di se stesso come parvenza».

E cosa ci può essere di più parvente, fantasmatico, ma al tempo stesso reale e permanente, di un personaggio infantile con il quale si è colloquiato durante i lunghi anni della propria formazione psichica? La sua centralità è tale, nell’economia di Infanzia berlinese e non solo, che Adorno, nella postfazione, dice chiaramente che: «L’omino con la gobba doveva servire da conclusione».

[do action=”citazione”]Dunque nel rito messianico che Benjamin amministra attraverso l’accurata scelta delle immagini, all’«omino con la gobba» viene affidata una promessa di salvezza[/do]

La scansione delle immagini di Infanzia berlinese, infatti, ci guida verso l’«omino con la gobba» attraverso la descrizione di luoghi definiti, come il Kaiserpanorama, un precursore del cinema con immagini da vedere attraverso stereoscopi davanti ai quali sedevano gli spettatori, o i ricordi del Tiergarten, il grande parco al centro della città con i suoi favolosi animali, la lontra, i pavoni le farfalle, o della sua casa immersa nella luce lunare che «non è destinata al nostro vivere diurno», con tutto il corteo domestico di armadi, calzini, la scatola con gli strumenti per cucire, o il telefono che, all’epoca, se ne stava «incompreso ed esiliato». Dunque nel rito messianico che Benjamin amministra attraverso l’accurata scelta delle immagini, all’«omino con la gobba» viene affidata una promessa di salvezza.

Dopo queste «stanze», a mo’ di introduzione, ecco ad un tratto apparire un essere, una entità, totalmente distinta, un totaliter aliter cui Benjamin, inaspettatamente, attribuisce il ruolo di alter ego, ma di un tipo affatto particolare, dato che è lui a vedere, senza essere visto, tutte le immagini precedenti: «Quando compariva restavo con un palmo di naso (nell’originale tedesco Benjamin usa l’espressione das Nachsehen haben, alla lettera «seguire le cose con lo sguardo»). E intanto le cose si ritraevano, sino a che, passato un anno, il giardino divenne un giardinetto, la mia camera una cameretta, la panca una panchetta. Le cose si assottigliavano, ed era come se spuntasse loro una gobba che le assimilava all’omino. L’omino mi anticipava sempre. E nell’anticiparmi intralciava il mio cammino. In realtà non faceva che riscuotere di ogni cosa cui volgevo la mia attenzione, la metà del dimenticare… Fu sempre solo lui a vedere me. Mi vide nel nascondiglio e davanti al recinto della lontra, nei mattini d’inverno e davanti al telefono…».

L’«omino gobbo» dunque, assimila progressivamente il mondo visionario ed infantile di Benjamin nella sua gobba, riscuotendo inoltre la «metà del dimenticare». Ecco perché il filosofo, alla fine, lo ritiene il suo dybbuk, una entità che vive con lui, che condivide i sui pensieri più nascosti, ed anche che li protegge dalla storia nella sua mistica gobba. Come non richiamare un’altra immagine-guida di Benjamin, quella dell’Angelo della storia con il volto alle macerie del passato e le ali già spiegate verso il futuro?

Non è forse il mondo che l’omino con la gobba preserva nella sua deformazione a costituire il possibile futuro verso il quale l’Angelus Novus viene spinto? Come dirà delle immagini-costellazione nei suoi Passage parigini, l’«omino con la gobba» vive in un luogo in cui «un’epoca sogna la successiva».

Tutto ciò che si produce nell’ebraismo, ha scritto Rosenzweig in La stella della redenzione, comporta una doppia relazione, da una parte con questo mondo e dall’altra con un mondo che deve venire: Benjamin ricava il suo spazio in questa tradizione. Ecco perché l’«omino con la gobba» di Infanzia berlinese, nascosto nel buio notturno della cantina, così come il suo corrispettivo nascosto nel buio dell’automa giocatore di scacchi nelle Tesi sul concetto di storia, verrà da Benjamin continuamente citato, richiamato, allusivamente evocato in una pluralità di saggi, come quello su Kafka, al fine di essere poi utilizzato come veicolo metaforico, affidabile proprio per la sua specificità formale, per quella carica proiettiva che in Benjamin, come in tutti i grandi visionari, cambiava di polarità mutando la deformità in salvezza.
La genia dell’omino con la gobba. Ma chi erano i sodali dell’«omino gobbo», la sua genia occulta, nascosta nella buca del palcoscenico infantile del filosofo berlinese? Tra quali personaggi della tradizione ebraica egli lo aveva scelto per la capacità di trasformare in visione messianica le angustie e le paure della sua vita errabonda, in deflusso escatologico le ansie infantili? Il filo sottile che lega questi personaggi viene costantemente evocato da Benjamin come in una formula alchemica, in cui ciò che si legge non corrisponde a nulla di fruibile se non per un iniziato che possegga la chiave di lettura. L’«omino gobbo» appartiene, lo abbiamo accennato, a quella stirpe di figure che Benjamin riferisce all’arte di Robert Walser; in specifico a quella parte che «ci rivela donde provengono i suoi diletti. E cioè dalla follia, e basta».

Si tratta però di una forma di «follia» particolare, più definibile come «mania», avrebbe detto Platone nel Fedro (244 A-C), come quella che «viene dalle Ninfe», che porta i doni più ambiti, una follia che «illumina».
Anche in una lettera al suo amico Gershom Scholem, Benjamin scrive che «la follia è l’essenza dei personaggi di Kafka; da Don Chisciotte, agli assistenti, fino agli animali», e aggiunge che solo l’aiuto di un folle è veramente un aiuto.

«Vi è, come dice Kafka, un’infinita speranza, solo non per noi». Ecco che il dybbukim Walter Benjamin-omino con la gobba, al tempo stesso lui e non lui, può lanciare uno sguardo sull’infinita speranza. Nel saggio su Kafka, Benjamin ci spiega che «questo ometto è l’inquilino della vita distorta; e svanirà quando verrà il Messia, di cui un gran rabbino ha detto che non intende mutare il mondo con la violenza, ma solo aggiustarlo di pochissimo». E allora, questo «aggiustare di pochissimo», questo raddrizzare i torti, come forse la gobba dell’omino, mettono il personaggio «kafkiano» in diretta relazione col Messia.

Il «gran rabbino» a cui Benjamin fa riferimento è Rabbi Nachman di Breslav, uno dei padri fondatori del chassidismo, il movimento mistico popolare che vedeva la speranza palingenetica depositata negli emarginati, i folli e gli inetti. Rabbi Nachman sosteneva, con disarmante semplicità, che «la venuta del Messia non cambierà nulla, salvo che ognuno si accorgerà della propria insipienza».

Da questo riferimento capiamo anche l’attitudine di Benjamin rispetto al mondo misterioso dell’infanzia, a quei segreti nascosti all’interno della gobba dell’omino come nel buio dell’automa giocatore di scacchi. Per questa corrente del misticismo ebraico, infatti, il solo nominare questi segreti senza svelarli, poteva affrettare l’avvento dei tempi messianici. Per capire il chi è dell’«omino con la gobba» si deve dunque tornare alle visioni infantili che egli ritrovava nelle esperienze con l’hashish, dove ad un certo punto dice: «La maleducazione è il dispiacere che il bambino prova per il fatto di non essere capace di magia. La sua prima esperienza del mondo non è che gli adulti sono più forti, ma la sua incapacità di praticare la magia».
L’«omino con la gobba» è dunque un essere favoloso che ci riporta ai momenti estatici, aurorali, dell’entusiasmo infantile: il tempo del mistero e del segreto, quando «tutto era ancora possibile».

«Non crediate il destino sia più che l’intensità dell’infanzia» dice Rilke, e nessuno più di Benjamin, che ha teso tutta la sua vita tra le polarità di una fede politica materialista e una religiosità mistica, può capirlo.
Anche nel romanzo di Elias Canetti Auto da fé (nell’originale Die Blendung, accecamento), compariva un gobbetto giocatore di scacchi, l’ebreo Fischerle, anche lui simbolo del legame che l’uomo deve avere con le rovine del passato se vuole progettare il futuro. Sia per Benjamin che per Canetti, allora, l’«omino gobbo» è il fantasma dell’identità che per nascondersi e salvarsi, ma anche per agire sottilmente sul mondo, deve prendere forme deformi.Sullo sfondo di queste storie si stagliano infine figure come quelle del Golem, creato da Jehuda Löw ben Bezalel, rabbino in Praga nel sedicesimo secolo, o dell’Homunculus di Paracelso: simulacri di vita prodotti artificialmente ed al servizio del loro padrone certo, ma solo in quanto animati dalle stesse forze mistiche che donano la vita, o la morte, agli esseri umani che li hanno concepiti.

La confessione

Questa chiave di lettura intima, personalissima, ci viene data da Benjamin in punto di morte, come estrema confessione che ritroviamo in una lettera alla adorata Gretel Adorno, alla quale ha affidato il segreto dei suoi ricordi. Siamo qui a poche ore della morte suicida, nel Settembre del 1940 a Port-Bou in Spagna, mentre tentava di emigrare negli Usa. Benjamin ha con sé una borsa nera nella quale, forse, si trova la stesura finale, «assoluta» dirà lui, delle Tesi, che egli vedeva come premessa necessaria al grande affresco dei Passage.

Il suo stato d’animo è ben descritto dalla lettera nella quale ritorna il contenuto intimista delle immagini di Infanzia berlinese: «Per quanto concerne la tua richiesta di appunti che possano risalire alla conversazione sotto gli alberi di marronniers, ebbene, si è presentata in un momento in cui proprio quegli appunti mi hanno dato da fare. La guerra, e la costellazione che l’ha portata con sé, mi ha condotto a mettere per iscritto alcuni pensieri che posso dire di aver tenuto per almeno vent’anni custoditi in me, anzi preservandoli pure da me stesso. Questo è anche il motivo per cui persino a voi non ho concesso altro che un fuggevole sguardo su di essi. La conversazione sotto i marronniers fu una breccia in questi vent’anni. Ancora oggi te li consegno più come un mazzetto di erbe sussurranti messe insieme in passeggiate meditative che come una raccolta di tesi (…).

Esse mi fanno supporre che il problema del ricordo (e dell’oblio), che vi appare ad un altro livello, mi terrà occupato ancora per molto tempo». In realtà egli non ebbe tutto il tempo che avrebbe voluto, pochi giorni dopo una dose di morfina lo stroncherà, ma nella missiva respiriamo l’aria che aleggia intorno ai misteriosi personaggi che vengono direttamente dai giorni dell’infanzia, la loro scaturigine onirica ed allusiva, che li rendeva passage dei pensieri segreti che solo in punto di morte Benjamin si era deciso a svelare. E allora capiamo che la preghiera finale di Infanzia berlinese dedicata al personaggio kafkiano, è in realtà per se stesso: «Prega bambino mio, per l’omino con la gobba prega Iddio».