«Se guardi intorno dirai: Oh, che meraviglie!/ Ho le cose più strane e curiose,/ Non ho nulla da desiderar,/ Vuoi un… come si chiama? Io ne ho venti». Sarà certo risuonata alle orecchie di Wolf Burchard – curatore della mostra, al primo piano del Metropolitan Museum, fino al 6 marzo – la commovente canzone di Ariel, scritta da Alan Menken e Howard Ashman per il film che ha trascinato la Disney verso una vera e propria rinascita, e cioè la Sirenetta, uscito nelle sale nel 1989 alla fine del decennio più difficile per la casa di produzione statunitense.
Lo diciamo, con un qualche grado di sicurezza, perché soltanto a sfogliare il catalogo Inspiring Walt Disney The Animation of French Decorative Arts (pp. 240, $ 50,00), ci si ritrova a fischiettare quel refrain, a un tempo dolce e malinconico, imbattendosi di pagina in pagina in brocche figurate o vasi rosa pastello, orologi zoomorfi e figurine di biscuit, case di bambola e souvenirs turistici. È un peccato e un bene insieme, dunque, che la pandemia – con i suoi mille ostacoli ai viaggi e coi suoi burocratici confini fra continenti – scoraggi una visita in persona alle sale dell’istituzione newyorkese, ché altrimenti si sarebbe corso il rischio di canticchiarlo, tenendo il ritmo coi passi, nelle sale blu e amaranto del bell’allestimento documentato, per i curiosi, dai video sul sito del museo e dalle molte foto instagrammate grazie ai cellulari degli avventori felici.
Provvidenzialmente, del resto, il volume edito per accompagnare l’esposizione è concepito come una monografia autonoma, secondo un’usanza ormai perseguita dall’Editorial del Met. Le schede delle opere in percorso sono relegate al fondo, cariche soltanto delle informazioni essenziali per ricostruire cronologia e provenienza di ogni pezzo, mentre il discorso scorre fluido, di saggio in saggio, amalgamato – in questo caso – dall’avere i testi un autore unico, Burchard per l’appunto.
Esperto di arti decorative e impiegato nell’ESDA Department da poco meno di un lustro, lo studioso è stato Curatorial Assistant al Royal Collection Trust fra il 2009 e il 2014; e quale garanzia migliore per l’evento di oggi – oltre che, ovviamente, una solida passione nutrita sin dall’infanzia – di avere, come padre amorevole, uno studioso cui è spettata la gestione di parte dei tesori della Regina d’Inghilterra?
Lo sapeva bene il vecchio zio Walt che i quarti di nobiltà fanno ben più che i due terzi dell’incanto: non a caso la mostra si concentra sulle pellicole maggiormente aristocratiche uscite dalla factory statunitense, e cioè Cinderella, la Bella addormentata e il posteriore La Bella e la Bestia, provandosi a chiarire in che modo il lusso del rococò abbia influenzato l’immaginario di quei lungometraggi, realizzati su un arco cronologico assai vasto, fra l’immediato dopoguerra e i primi anni novanta.
Non è la prima volta che ci si sofferma, persino con un appuntamento espositivo, sulle fonti figurative delle invenzioni disneyane. In catalogo, ad esempio, si rammenta con scrupolo la straordinaria mostra itinerante inaugurata nel 2006 a Parigi, Il était une fois Walt Disney, trasferita con successo a Montréal, Monaco e poi a Helsinki. In quell’occasione, fra le altre cose, veniva sancita la ‘sartorialità’ tedesca della campissima mise per la regina di Biancaneve, un prestito bello e buono dalla cattedrale di Naumburg, dove la statua di Uta, Margravia di Meissen, sfoggia un look medesimamente crudele; dipendenza, fra l’altro, già rilevata da uno studio di Robin Allan dal titolo esplicito, Walt Disney and Europe: European Influences on the Animated Feature Films of Walt Disney.
Il progetto odierno – rispetto all’estensiva catalogazione della precedente iniziativa – ha tuttavia un focus insieme più ristretto e specialistico: l’idea è cioè quella di mettere in evidenza quanto uno stile – ma anche un’estetica, quella appunto legata alla prima metà del Settecento – innervi alcune fra le pellicole di massima risonanza della compagnia californiana. In questo senso, s’indagano non solo i gusti collezionistici del fondatore, i suoi viaggi, i rapporti con il mondo francese (sia quello cinematografico che quello librario, fra Charles Perrault e i fratelli Lumière, insomma), ma – nello specifico – la relazione di certe immagini con una declinazione peculiare della ‘meraviglia’, legata a idee di forme metamorfiche, di lusso splendente e a una predilezione caratteristica per il ninnolo prezioso, la miniatura incantevole, il fronzolo cesellato.
Alcuni accostamenti sono davvero efficaci. Pensiamo ad esempio alle pagine che, scandagliando l’eredità disneyana, ricostruiscono l’archeologia ‘iconografica’ dei personaggi minori de La Bella e la Bestia, gli oggetti ospitali che popolano il castello del mostro benevolo, protagonista della fiaba. Miss Potts, Lumiere e Cogsworth sono così messi in dialogo con i loro progenitori diretti, dalle pendole di André Charles Boulle ai candelabri di Meissonnier o alle teiere di stranote manifatture sassoni. In altri casi il testo indugia in paralleli che, pure calzanti, rischiano di logorare la sintetica ispirazione delle linee dei cartoons, sempre propense a sacrificare la filologia in favore della cinegenia: è però vero che, se confrontate con le macchine gigantesche dei parchi a tema (soggetto dell’ultimo capitolo), proprio questa diligenza, una simile disciplina restituiscono alla cartapesta dei castelli turriti – sistematicamente collocati a ingresso di ogni luna park della casa americana – un senso poetico più pieno, nel confronto critico con altri sogni, con altri piani megalomani, da Versailles a Neuschwanstein.
Le ricerche di Burchard hanno poi messo in luce chiavi suggestive che, almeno per le pellicole meno recenti, andrebbero utilizzate nell’interpretare il ricorso estensivo a un immaginario ubriaco di rococò francese. L’opera disneyana che, per prima, fece il suo ingresso al Met negli anni trenta – una gouache su celluloide titolata The Vultures (da Biancaneve e i sette nani) – vi arrivò grazie all’intermediazione del mercante newyorkese Julien Levy, il cui interesse per il movimento surrealista, perfino nelle sue declinazioni ‘mondane’ (da Leonor Fini a «Harper’s Bazaar»), è un fatto critico ormai acquisito. Anche Disney avrebbe del resto avuto contatti con le molte ramificazioni della medesima avanguardia, stringendo con Salvador Dalí una relazione professionale tumultuosa, tradottasi in alcune idee fornite dal catalano per le sequenze di un film rimasto su carta, Destino, la cui lavorazione si concentrò attorno al 1945-’46. Proprio negli stessi anni il pittore stava proponendo una ‘variante’ onirica di mode neo-Settecento, dichiarando ad esempio come stile corrente, in tutto attuale (e anzi futuribile), quello dei costumi ‘Luigi XV’ approntati su suoi disegni per lo spettacolo Come vi piace, diretto da Luchino Visconti nel 1948 al Teatro dell’Opera di Roma; e d’altronde, finanche un interprete sensibile e colto come il nostrano Savinio, posto di fronte al compito di chiarire i moventi formali del gruppo fondato da André Breton a quasi vent’anni dalla sua nascita, doveva ricorrere al XVIII secolo come a una delle fonti di massima ispirazione per quegli artisti, spiegando ai profani quanto i surrealisti andassero considerati – al termine di una delle più crudeli guerre di sempre – «gli ultimi sopravvissuti di una specie, o meglio di un’epoca svanita» e quindi «i rappresentanti, seppur in modo singolare e fuori contesto, del Settecento, cioè della civiltà più matura e colimaçonné di tutte quelle esistite».