«La chitarra parla la mia lingua emotiva, mi trasmette il rumore e la quiete. Quando è fatta di buon legno è un corpo. Io mi addormento accanto a lei, la porto ovunque. Se si rompe, è come se io mi rompessi l’osso del collo. La sento fisicamente, è un tutt’uno con me all’altezza del bacino. Se sto male, suono la mia chitarra e guarisco». Così risponde Wallis Bird se le chiedi: «Cos’è la chitarra per te?». Avevamo incontrato Wallis qualche tempo fa, a El Barrio, locale scelto dalla trentaduenne irlandese, per una tappa del suo minitour in Italia. Al termine dell’intervista era salita sul palco. Un saluto,un attimo di immobilità,e dopo qualche istante aveva iniziato a riversare sullo spazio stracolmo un’ondata di note. Quelle del suo nuovo album, Architect (Karakter/Rough Trade Distribution),uscito due anni dopo il bellissimo  Wallis Bird. Rock potente,con iniezioni di blues e funk, vitamine di musica popolare dall’Irlanda, la sua patria.

Adesso, nell’ascoltare una volta di più Architect, le tracce del cd si sovrappongono al dialogo di quella serata. Ha un modo unico di suonare, Wallis, nato dalla malasorte. Mancina, perde anni fa tutte le dita di quella mano, tranciate da un tagliaerba. Quattro gliele ricuciono, bisogna ricominciare. Torna a impugnare la chitarra, la rovescia, la trasforma in una «destrorsa capovolta», chitarra anomala anche nell’uso, da cui l’artista ricava suoni mai ascoltati così. La voce non si affida soltanto alla potenza come in Hardly Hardly, ma diventa voce da ballata in But I’m Still Here, I’m Still Here. «Le mie radici musicali sono prima di tutto nella mia famiglia; i miei erano musicisti nomadi e colti. Amo molto e ho molto guardato a Simon & Garfunkel, Gun’s Roses, Radio Head. Ani Difranco è la mia regina della chitarra, di lei mi piacciono come scrive, ogni suo nuovo brano scava sempre di più in profondità, e il suo modo positivo di prendere la vita».

Su Communion, ma già era successo in precedenza, una corda della chitarra salta senza che questo sia ostacolo a proseguire il brano. Dal fondo della sala, Aidan, alto, magro, capelli e barba appena grigi, arriva in soccorso. Aidan: capitano della consolle, complice di Wallis con l’ottavino, il clarino e piccoli inserti vocali. Un ponte sonoro perfetto. « Dopo averli scritti, registro i brani a casa mia. Molte volte dico ai musicisti ‘Questo è il suono che vorrei’, ma la mia registrazione non è riuscita ad esprimerlo. Ci parliamo, e io consegno loro ciò ho creato, con la fiducia totale che sapranno fissarlo in musica» dice Wallis.

River of the paper. El Barrio tace mentre la ragazza d’Irlanda chiude gli occhi, stringe al bacino la sei corde, e riecheggia Janis Joplin a modo suo. Una ballata lenta, cui Aidan unisce il clarino. «Essere nata in Irlanda conta moltissimo. La musica irlandese ha un forte senso storico, narrativo, di comunicazione sociale; è il miglior tramite per incontrarsi e discutere al di là del cantare e suonare insieme».

Wallis da Londra si è intanto trasferita a Berlino, una scelta che forse entra anche nella sua musica. Racconta: «Tra Wallis Bird e Architect c’è da un lato una stretta continuità, espressa nei brani finali dei due dischi (Polarised e River of the Paper, ndr). Wallis bird è stato un lavoro lungo, cerebrale, ma anche rilassato. Architect è selvaggio, libero. Ho buttato fuori i brani uno dopo l’altro, direi che li ho vomitati, senza nulla togliere alla profondità del pensiero. Ho cominciato a scrivere l’album subito dopo la decisione di andarmene da Londra. Il solo pensiero ha fatto scaturire dentro di me creatività e idee. In Architect dico: ‘Muovi il tuo corpo sudato, agitalo, esplodi. Londra dorme, Berlino vive»