Cosa intende Spinoza per etica, si chiedeva Deleuze. Per capirlo pensiamo all’etologia, ovvero una «scienza pratica delle maniere di essere». Se la morale ha a che fare con l’essenza e con i valori, e dunque col giudizio, un’etica parla di singolarità, dove singolarità è cosa opposta a individualismo, perché non di atomi separati gli uni dagli altri si tratta, ma di un mondo fatto di infinite connessioni tra ogni singolarità. Ecco, Anima di Wajdi Mouawad (Fazi, 18 euro) è un romanzo-mondo che è (anche) un capolavoro di etica. Quella raccontato da Mouawad è un universo senza giudizio dove ogni ente (uomo o animale che sia) è connesso con ogni altro ente, ognuno restituito nella sua forma di vita assolutamente singolare, eppure intramata dell’altro da sé. Un universo di risonanze di «anime animali», dove a risuonare è una scrittura impetuosa, trascinante, a tratti miracolosa.

Mouawad è un libanese cresciuto in Francia, dove è celebratissimo anche come autore teatrale. In questo romanzo, la messa in scena inizia con un evento tremendo: il selvaggio, folle, macabro omicidio di una donna. Da lì inizia il viaggio: il suo uomo si mette sulle tracce dell’assassino psicopatico, che la polizia ha rinunciato a cercare, e in quella rincorsa si aprono mondi, uno dopo l’altro. Prima le riserve indiane del Quebec, perché l’assassino è un mohawk; e poi sarà una corsa lungo tutti gli States, un punto zero che non si fermerà alla ricerca dell’assassino, ma proseguirà fino alla radice dell’orrore, una radice che abitava il protagonista da sempre. Sarà insieme una anabasi e una catabasi, per Wahhch (nome che in libanese significa «mostruoso», dove il cognome Debch significa «brutale»), una discesa/risalita al suo proprio orrore rimosso e cancellato, fino a quella Sabra e Chatila dove era nato, e dove aveva vissuto l’orrore che adesso doveva riscoprire nelle sue viscere, nella sua anima. Ma l’anima, racconta Mouwad, è una sola, nei suoi infiniti modi: tutto si tiene, tutto è connesso nel regno della vita. Anime ed animali, tutto risuona. Ed è questa la particolarità narrativa del romanzo: che a raccontare gli eventi sono gli animali che li osservano. È il loro sguardo «alieno» a farne parola. Fino a scoprire che quella presunta alterità degli animali rispetto all’uomo è solo apparente, fino a scoprire la profonda animalità dell’uomo stesso, nel bene e nel male: là dove bene e male scompaiono, e c’è solo un unico canto animale che tutto tiene, e lascia scorrere.

Le parole risuonano grazie al silenzio degli animali che ascoltano gli uomini, ed è proprio grazie a quel silenzio che il mondo degli umani si riconnette al proprio senso più profondo. Gli animali guardano, e la sapienza narrativa di Mouawad riesce a mostrarci lo sguardo degli animali, la loro specifica forma di vita (restituita con precisione nella scrittura: del resto ogni capitolo, nelle prime due parti del romanzo, si intitola col nome scientifico dell’animale che racconta, e già questo segnala che non c’è impressionismo naif nell’immaginarsi quegli sguardi). Si costruisce così una trama di senso del mondo che coincide con la trama stessa del romanzo. Ovviamente, non c’è nessuna idillizzazione della natura: la ferocia appartiene al regno animale, è una delle modalità di quell’interconnessione universale. Ma la ferocia dell’umano ha un suo senso specifico, sembra dirci Mouawad, particolarmente abietto. E allora il viaggio del protagonista a partire dalla ferocia che lo ha toccato è un percorso («una macabra caccia al tesoro») che va a toccare le corde più intime della violenza degli uomini, i frammenti di una storia esplosa che sono le loro guerre, che si richiamano le une con le altre.

«Gli umani sono soli», così a un certo punto riflette Tomahawak, lo scimpanzé del capo indiano che aiuterà Wahhch. «Malgrado la pioggia, malgrado gli animali, malgrado i fiumi e gli alberi e il cielo e malgrado il fuoco. Gli umani sono sempre sulla soglia. Hanno avuto il dono della verticalità, e tuttavia conducono la loro esistenza curvi sotto un peso invisibile. C’è qualcosa che li schiaccia. Piove: ecco che corrono. Sperano nella venuta delle divinità, ma non vedono gli occhi degli animali che li guardano. Non sentono il nostro silenzio che li ascolta. Prigionieri della loro ragione, la maggior parte di loro non faranno mai il grande passo dell’irragionevolezza, se non al prezzo di un’illuminazione che li lascerà esangui, e folli. Sono assorbiti da ciò che hanno sotto mano e quando le loro mani sono vuote, se le portano al viso e piangono. Sono fatti così».