Su uno dei muri di Varsavia c’è un murales che raffigura Zbigniew Cybulski, il James Dean polacco, come era chiamato, l’interprete dei primi film di Andrzej Wajda. «Questo sta a significare che ancora oggi c’è un legame tra quei film e la nuova generazione» dice il regista invitato dal Bifest (21-28 marzo) a tenere una Master Class, lezione di cinema e di storia, accolta tanto più intensamente dopo la proiezione di Katyn. I suoi film attraversano la storia del paese dal dopoguerra ad oggi, ha formato nuove generazioni di cineasti, ha saputo parlare al pubblico a dispetto della censura, vate della Polonia. Sono stati gli anni ’50 di Una Generazione, di Cenere e diamanti, Ingenui perversi, gli anni ’80 dei film girati n Francia dopo il trionfo dell’Uomo di Marmo, del film richiesto espressamente dagli operai di Danzica L’uomo di ferro per la sua vicinanza a Solidarnosc, fino all’Oscar alla carriera ricevuto nel 2000. Di tutti i suoi film Katyn è il più personale, un conto da chiudere, una ferita aperta: la vicenda del padre massacrato con un colpo alla nuca insieme ad altri diecimila ufficiali polacchi gettati nelle fosse comuni nel 1940 dai russi e non dai nazisti.

«La vittima del crimine è stato mio padre, ma la vittima della menzogna è stata mia madre che avevo sotto i miei occhi. Ho fatto un film sulle donne che aspettano e sugli uomini che non tornano. Nel ’43 i tedeschi hanno scoperto le fosse e hanno trasmesso anche in polacco che erano stati trovati gli ufficiali trucidati dai russi. «L’Urss non ha mai ammesso il crimine, era un argomento tabù. Gli ufficiali sono stati trovati avvolti da giornali con cui si proteggevano dal freddo e quelle date testimoniano la data della loro morte. In qualche modo questo film chiude un cerchio: la guerra ci ha condizionato, era il nostro tema ed era la forma dei nostri film sotto l’influenza del neorealismo, aspettavamo i film che arrivavano dall’Italia, ci aprivano gli occhi, si trattava di cinema sincero, vero, personale. Noi aggiravamo la censura eliminando il più possibile la parola. Il cinema sonoro è malsano, meglio le immagini che stimolano l’immaginazione, mentre è facile dire con le parole qualcosa contro l’ideologia. Noi volevamo intraprendere un dialogo con il pubblico polacco non attraverso le parole, ma attraverso le immagini. In Kanal, quando i rappresentanti della resistenza che combattevano nelle fogne arrivano di fronte a una grata e da lì vedono un fiume. Il pubblico polacco sapeva che si trattava della Vistola, che sulle sponde c’erano i russi di Stalin con i carri armati e che avrebbero potuto sostenere la resistenza contro i nazisti, ma non si sono mossi, hanno commesso il crimine di fermare la resistenza. Io non avevo bisogno di mostrare i cingolati, il pubblico sapeva».

Cenere e diamanti, ricorda, fu un altro film che fece scalpore, premio Fipresci a Venezia, ma osteggiato in Polonia tanto da farlo uscire in una sola sala, con una immensa folla che si era radunata per strada. Per non fare intervenire la polizia a disperderla si cambiò strategia: sarebbe stato in più sale ma senza titolo. Tutti lo sapevano lo stesso – queste cose succedevano nel nostro paese – e il film superò i confini per via di un piccolo distributore che lo portò in una sala fuori Venezia, dove lo vide Rubinstein che ne parlò a René Clair che rimase incantato e così il film presentato fuori concorso ebbe il premio Fipresci che segnò il successo internazionale».

Certo Zbigniew Cybulski non sembra per niente un attivista dell’Armata craiova: «Lui portava occhiali da sole perché aveva problemi agli occhi, portava un giubbotto americano, pantaloni come jeans che per noi era un sogno irraggiungibile, scarpe che solo in seguito sarebbero arrivate in Polonia. Non voleva cambiarsi, io che avevo trent’anni ed ero un buon regista decisi che andava bene così ed è diventato il simbolo della nuova generazione. Dopo tutti si vestivano come Cybulski. Quel murales che ho visto nel mio quartiere significa che ha ancora qualcosa da dire ai giovani».