Nel 1835, quando per la prima volta venne pubblicata l’Estetica di Hegel a partire dagli appunti presi dei suoi allievi, Wagner aveva alle spalle solo un’opera a cui in seguito non avrebbe dato grande peso, Le Fate (1834), messa in scena soltanto dopo la sua morte. Il fatto però che la musica e gli scritti di Wagner siano così intrisi di questioni filosofiche, e che la filosofia vi abbia dedicato nel tempo così tanta attenzione, si può ricondurre in gran parte a un celebre enunciato contenuto in quel libro: «l’arte, dal punto di vista della sua suprema destinazione, è e rimane per noi un passato». Wagner, per quanto ne sappiamo, non è stato un lettore di Hegel, come invece lo è stato in momenti diversi di Feuerbach e di Schopenhauer.

Eppure tutta la sua opera si può leggere come un tentativo di smentire quell’affermazione, di restituire cioè all’arte proprio la «destinazione suprema» che Hegel vedeva relegata nel passato: la capacità di far presa sull’assoluto, di esprimere il senso di una totalità, di rigenerare il presente facendo leva su una rivisitazione critica del mito.

Con le inevitabili ambiguità di questa colossale ambizione si sono misurati via via tutti coloro che, attraverso il «caso Wagner», si sono interrogati sulla condizione dell’arte nella modernità, da Nietzsche a Adorno, da Thomas Mann a Heidegger, il quale ha identificato nella sua opera il «momento» di maggiore radicalità vissuto e «osato» dal XIX secolo per reagire a un declino di portata storica, fino alle letture più recenti di autori come Alain Badiou, Slavoj Zizek e Philippe Lacoue-Labarth, quest’ultimo il più chiaro nel ricondurre Wagner proprio nel solco della riflessione di Hegel.

La costellazione di idee generata dall’opera di Wagner è ora oggetto di un’accurata ricostruzione nel nuovo libro di Giuseppe Di Giacomo, Richard Wagner Una guida filosofica (Carocci, pp. 227, euro 19,00), nel quale si affrontano singolarmente anche i titoli della sua produzione, dall’Olandese volante (Der fliegende Holländer) al Parsifal, l’ultimo lavoro che scandalizzò Nietzsche almeno fino a quando questi non ebbe occasione di ascoltarne, eseguito al pianoforte, solamente il Preludio.

Di Giacomo esordisce con una premessa importante: occorre analizzare l’opera di Wagner indipendentemente dai proclami e dalle teorie estetiche dei suoi scritti, dato che questi ultimi si trovano piuttosto a essere regolarmente annullati e rovesciati dallo svolgimento poetico e musicale dei suoi drammi. «Il senso di qualsiasi grande opera d’arte», osserva Di Giacomo, «non può ridursi alle dichiarazioni o alle intenzioni dell’autore» e proprio per questo la profondità delle creazioni wagneriane «non può e non deve venire esautorata» dalle accuse suscitate dai suoi libri, prima fra tutte quella di antisemitismo.

«La grandezza di Wagner», come sostiene Di Giacomo riallacciandosi a Zizek, sta proprio nell’«implicita sovversione del suo progetto ideologico», nell’aver dato voce a una ricerca dell’assoluto che supera con un salto d’Achille sia le più velleitarie, sia le più odiose delle sue affermazioni di principio. Questa ricerca dell’assoluto, prosegue Di Giacomo, ruota intorno a tre punti focali che svolgono in senso inverso l’ordine cronologico delle letture filosofiche di Wagner. Da Schopenhauer, autore nel quale si immerse a partire dal 1854, proviene la visione pessimistica che si concentra sul negativo, sul dolore, sull’obiettivo di annullare il senso individualistico della volontà.

Da Feuerbach, che lo aveva entusiasmato già alla fine degli anni Quaranta, riprende invece una visione ottimistica che attraverso l’esperienza dell’amore e della pietà guarda alla prospettiva della redenzione, alla scoperta di una volontà universale, positiva, non più vincolata da interessi egoistici. Di qui lo sviluppo dei suoi personaggi, con una progressiva sostituzione della dimensione del sacrificio con quella della rinuncia, e di qui anche l’uso del mito in vista non della sua glorificazione, ma del suo superamento in vista di un’etica che rigeneri il senso del nostro essere al mondo.

In un altro libro recente, L’Anello del Nibelungo Parola e dramma (Il Mulino, pp. 139, € 15,00), Guido Paduano si focalizza su un diverso, e anch’esso centrale, aspetto della poetica e della filosofia wagneriana: la messa in scena della dialettica del potere. Quasi anticipando un saggio di Walter Benjamin del 1920, Per la critica della violenza, nel quale viene sottolineata la distinzione fra una violenza che «istituisce» il diritto e una che lo «conserva», nelle quattro opere di quel ciclo Wagner si concentra sulle ineliminabili contraddizioni del rapporto con il potere, ritenendolo fondamentalmente estraneo alle qualità fondamentali dell’essere umano: la libertà e la capacità di vivere eticamente.

Paduano sottolinea anche come Wagner abbia intravisto il seme del totalitarismo nell’organizzazione del lavoro industriale e del capitale, evidenziato da una memorabile messa in scena della Fura dels Baus a Firenze sulla quale opportunamente richiama l’attenzione. Il quadro che emerge da entrambi i libri è quello di un compositore e poeta la cui filosofia implicita ha bisogno di essere ancora ripensata e la cui musica ha ancora bisogno di un progetto paragonabile a quello di Adorno – leggere direttamente nel materiale musicale i codici che permettono di evidenziare la sua dialettica interna – per rovesciarne l’obiettivo: per liberare cioè Wagner dai pregiudizi che derivano in parte dai suoi stessi scritti teorici, in parte dall’improprio uso politico che è stato fatto della sua opera.