Con la raffica dei tre appuntamenti (15, 22 e 29 gennaio) con cui – nel centrale Teatro Manzoni e nel consueto, e gradito al pubblico, orario delle 11 della domenica mattina – è ripresa dopo le feste e ha avuto il suo clou la stagione di Aperitivo in concerto, jazzisticamente il 2017 a Milano è iniziato su un livello che la città meriterebbe più spesso. Il primo e il terzo appuntamento sono stati appannaggio di due mostri sacri, Wadada Leo Smith e Roscoe Mitchell, due dei maggiori esponenti di quella ricerca della «scuola» di Chicago che nella seconda metà degli anni sessanta balzò alla ribalta dell’avanguardia, due musicisti che mezzo secolo dopo sono ancora in prima linea.

Il duo di Wadada con Vijay Iyer, che si è tradotto nell’album A Cosmic Rhythm With Each Stroke, pubblicato lo scorso anno dalla Ecm, è apparso dal vivo anche migliore che su disco, più libero e fantasioso, per niente condizionato da stilemi «Ecm». Duo il cui perfetto equilibrio è apparso largamente basato sulla generosa rinuncia di Iyer a qualsiasi ruolo immediatamente protagonistico: pianoforte, fender rhodes e elettronica, Iyer è apparso magicamente calibrato nel creare una varietà di atmosfere con piccole, soffici nuvole di suono, leggere linee di basso, pulsazioni e veli di elettronica, contenuti momenti di asciutto lirismo al piano, frammenti di parlato fatti uscire dal pc, rade note del fender: tante situazioni nella quali con la sua tromba Wadada può esprimere il suo solismo in un ventaglio di soluzioni continuamente diverse, in termini di volume, registro, timbri, scelte espressive.

Alla fine, rivolgendosi al pubblico, Wadada ha presentato il giovane collega come il suo partner preferito: e in effetti Vijay Iyer, proprio nel suo non porsi da protagonista lo è stato e ha giganteggiato. Meno persuasiva delle altre due l’esibizione di Joe Daley, tuba ed euphonium – che ricordiamo per fare solo due nomi accanto a Sam Rivers e a Gil Evans – in un omaggio alla moglie mancata tragicamente un anno fa, una sorta di restituzione musicale, con una certa componente di rituale, di una elaborazione del lutto, ma un lavoro un po’ troppo esile e diluito: avrebbe potuto dare di più anche la gran combinazione di registri bassi e timbri gravi, fra gli strumenti del leader, i timpani di un fuoriclasse della percussione come Warren Smith, il trombone e il didgeridoo di Craig Harris, il sax basso e il sax subcontrabbasso di Scott Robinson, strumento quest’ultimo che troneggiava magnifico sul palco, quasi un totem di Arnaldo Pomodoro.

Roscoe Mitchell privilegia decisamente la creazione di musica originale rispetto alla rilettura di quella altrui: dunque un Roscoe Mitchell Sextet plays Coltrane», nel cinquantesimo della morte del grande sassofonista (17 luglio 1967) era un evento molto ghiotto e atteso. Il giovane Mitchell nel ’66 una sera ebbe l’opportunità di suonare con Trane, uno dei momenti decisivi della sua vita. Assieme a Mitchell Mazz Swift, violino, Tomeka Reid, violoncello, Silvia Bolognesi, contrabbasso – Junius Paul, contrabbasso, e Vincent Davis, batteria: dense tessiture degli archi, la bella lievità del soprano di Mitchell in Countdown, gli accenti solenni di Alabama con il leader al sax alto. Due soli brani di Coltrane e nessun cliché coltraniano, per il resto tutta farina del sacco di Mitchell: ma bastava ascoltarlo in una delle sue inesauste, improvvisazioni al sopranino per pensare che la sua musica è di per sé un grande omaggio alla ricerca visionaria di Trane.