Siete mai stati nell’occhio del ciclone? Non in modo retorico, ma realmente. Vi siete mai trovati in mezzo a un uragano? Probabilmente no ma Wacko Wade, lui al centro della tempesta ci è capitato più di una volta in vita sua. La più tremenda è stata dieci anni fa: c’era mentre Katrina squassava New Orleans da capo a piedi, demolendo persone, case e culture. Mentre da George W. Bush al sindaco della città Ray Nagin arrivavano solo parole e incertezze, lui cercava di arginare l’acqua in casa. Come chiunque in quei tre giorni terribili: il 28, 29 e 30 agosto del 2005. Mr. Wade che vive da sempre a Nowlins, di mestiere fa il batterista di blues. Da ragazzo, sul finale dei Fifties, divenne il motore ritmico di una backing band chiamata The Rhythm Kings che suonò negli anni a seguire con tutti i più grandi, inclusi Huey «Piano» Smith, Eddie Bo e Irma Thomas. Dal 1994 è il cuore pulsante della formazione del grande Little Freddie King. Insomma, Wacko potrebbe raccontare le storie in musica degli ultimi cinquanta anni di Nola.

Ma quest’oggi, ci narra ben altro. Racconta quelle tre giornate in cui Katrina cercò di spegnere per sempre la città. È il suo modo per catabolizzare quei momenti: rendere pubblica una storia personale. Perché ha tanto senso che la cittadinanza già da luglio stia celebrando quell’infausto fine agosto e che proprio tra ieri 28 e domani 30 agosto, ci sia l’acme degli eventi in programma. Ma ognuno a Nowlins oltre i momenti collettivi, rammenterà in cuor suo in queste ore, le proprie memorie. Ecco quelle di Wacko Wade: «Oltre a suonare, come secondo lavoro mi sono sempre occupato di edilizia. Facevo parte di un gruppo di lavoratori del settore. E avevamo una sede localizzata in periferia, la Kc Hall al 6254 di Vicksburg Street, a un tiro di schioppo dal lago Pontchartrain. L’incubo? Iniziò il 28 agosto. In quei giorni avevo mia madre ricoverata in ospedale per dei seri motivi e decisi, d’accordo con mia moglie Barbara, di non abbandonare la nostra abitazione quando sapemmo dell’evacuazione. Non era la prima volta che affrontavo un uragano e dopo aver vissuto Betsy nel 1965, pensavo di averle viste tutte… mi sentivo un veterano. Grazie agli argini esistenti, pensavo di essere protetto. Ricordo che la domenica 28 andò via abbastanza tranquillamente. Ma l’aria stava cambiando velocemente: ho bene impresso il tramonto meraviglioso con il cielo chiaro e pulito, preludio al clima violento che sarebbe arrivato durante la notte. Sapevamo dalla radio che la tempesta stava lasciando il Golfo del Messico, dirigendosi verso il lato est della città, e come annunciato dai bollettini metereologici, verso le 9 di sera la situazione cominciò ad essere cruenta. Il vento mescolandosi alla pioggia, iniziò a tirare sempre più forte, facendo volare ovunque detriti di qualsiasi tipo, che colpivano anche casa nostra. I cavi elettrici nella strada, dopo aver sibilato a lungo, saltarono uno ad uno. Capimmo che stava arrivando il “Big One”. D’accordo con Barbara decidemmo di trasferirci presso la sede di Vicksburg Street, in quanto costruita con mura di cemento e quindi più solida della mia abitazione. Prendemmo coperte e cuscini, un po’ di cibo, una torcia e la radio portatile. Il necessario per trascorrere fuori una sola notte e poi tornare. Uscimmo in strada, salimmo sul van e ci dirigemmo verso la Kc Hall. Non sapevo che la mia vita stava cambiando per sempre».

Prosegue Wacko, a voce bassa e ben scandita: «Mentre guidavo il vento ululava al punto tale da coprire le nostre voci. Arrivati al Kc, ci barricammo in cucina, mettendoci comodi davanti alla televisione per monitorare la situazione attraverso il telegiornale, ma in breve anche lì saltò la corrente. Lentamente, grazie alle torce, attraversammo la grande sala buia della Hall. Il rumore esterno della pioggia frammista al vento, contribuiva a rendere l’atmosfera ancor più spettrale. La tempesta intanto, continuava a crescere. Passammo tutta la notte, ascoltando il frastuono dei rami d’albero e di mille altri oggetti che venivano scagliati a una velocità sempre maggiore contro l’abitazione. Sentivamo il tetto che di tanto in tanto cedeva qualche pezzo alle raffiche di vento. Era spaventoso, ma continuavo a pensare che Betsy era stata comunque peggio. Alle prime luci dell’alba aprii la porta per controllare la situazione all’esterno: nel cielo nero, vidi alcune macchie chiare, segno che l’uragano andava scemando. In terra notai circa venti centimetri d’acqua e nulla più. Chiamai Barbara, dicendole che entro un’ora potevamo tornare a casa a piedi, lasciando il van parcheggiato lì fuori. Pensavo fosse una buona idea… mi sbagliavo: poco dopo, ricordo benissimo che erano le nove e trenta del mattino, lei iniziò ad urlare che l’acqua stava entrando sotto tutte le porte. Corsi immediatamente con asciugamani e attrezzature di vario genere per cercare di tamponare e sigillare tutto… inutilmente. Decisi quindi di aprire la porta d’ingresso per spazzare l’acqua fuori: niente, non ci riuscii! La pressione dell’acqua all’esterno mi impediva di farlo! Immediatamente salimmo le scale per cercare riparo al piano superiore, mi affacciai sul tetto dove tante volte ero salito a fare lavori di manutenzione. Appena misi la testa fuori mi arrivò il cuore in gola: attorno alla Hall c’era oltre un metro e mezzo d’acqua, le strade erano diventate fiumi e i bidoni della spazzatura galleggiavano ovunque. Capimmo che qualcosa di grave doveva essere accaduto dal lato del lago Pontchartrain, probabilmente il sistema di protezione non aveva retto. Intanto al piano terra la sala grande andava rapidamente riempiendosi come una vasca. Saltarono i servizi igienici e gli scarichi e tutto divenne liquame fangoso e nero. Poco dopo, stessa sorte anche per le condutture del gas, che in un attimo si espanse fino al piano sopra. La nostra unica salvezza a quel punto era uscire sul tetto. Ci arrampicammo e strisciamo dalla botola verso l’esterno. Da sotto sentivamo il borbottio dell’acqua salire assieme al gas che veniva spinto verso l’alto, e sopra di noi, smessa la pioggia, il calore del sole di metà mattina diventava sempre più forte. Ricorderò per sempre quei momenti: vedevamo qualche luce di sicurezza lampeggiare dalle abitazioni vicine e gli unici rumori che sentivamo erano gli allarmi delle auto e lo scorrere dell’acqua nelle strade. Null’altro. È strano come i suoni sembrano amplificarsi cento volte rimbalzando sulla superficie liquida, è irreale e angosciante. A strapparci da quello smarrimento, furono le voci di persone che chiedevano aiuto in modo disperato dai tetti delle case. Quanta paura! Per loro e per noi. Non ho mai pregato così in vita mia, ma lo feci ardentemente, sperando di salvarci. Mi ricordai che nei lavori di ristrutturazione fatti sul tetto, da qualche parte avevo dei teloni in plastica per riparare gli attacchi elettrici esterni. Li cercai immediatamente e mettendoli assieme, riuscii a costruire un riparo sotto cui coprirci dal sole e dal calore che a breve sarebbe diventato torrido. Da dove eravamo, il punto più alto del tetto, vedemmo il disastro che si stava compiendo: il quartiere dove vivevamo da trentotto anni completamente distrutto. Le automobili scomparse sotto i flutti, le strade inesistenti e le case quasi completamente ricoperte. Sui tetti, la gente chiedeva, urlando disperata, di essere salvata. Ero là sopra con mia moglie, con cinquanta dollari nel portafoglio e la radio portatile che dava notizie sul disastro in corso. Iniziammo a sbracciarci verso gli elicotteri che sorvolavano la zona, sperando ci vedessero e così arrivammo a sera. Barbara era distrutta ed io pensavo a come riuscire a trascorrere la notte, quando verso le undici, sentii il rumore di un motoscafo avvicinarsi. Presi la torcia, cercai di farmi vedere, urlai con quanto fiato avevo in corpo. Era una barca del New Orleans Fire Depart. Rescue che scendeva lungo la strada di Canal Blvd. Ci salvarono e come noi, molti altri che facemmo successivamente salire in barca. Tutti, tranne due: un ragazzo che decise di rimanere con la madre anziana, la quale non volle abbandonare la propria abitazione. A nulla valsero le preghiere dei vigili del fuoco. Ho ancora l’immagine di quella madre col figlio, che non credo ce l’abbiano fatta… e davvero, li porterò sempre nella mia memoria».

Wacko Wade termina così il racconto di quei momenti terribili. Grazie a gente come lui, come Little Freddie King e in generale tutta la comunità dei musicisti, Nowlins non è divenuta una «qualsiasi» città americana, né tantomeno una Las Vegas in musica. Piuttosto, è ancora New Orleans, ed è ancora in forma smagliante.