A un bad man non toccare mai due cose: i suoi soldi e le sue armi. Soprattutto queste ultime che aiutano a fare i primi. È «cattivo» Adidja Palmer, in arte Vybz Kartel, lo è sempre stato per esigenze di copione, e per scelta di vita. Da dieci anni circa è «The Gaza Emperor», l’imperatore della Dancehall giamaicana, la versione caraibica dell’hip hop afro americano che in nuff time – in poco tempo – ha soppiantato il reggae classico.
Quando Clive «Lizard» Williams è stato prelevato a forza dagli sgherri di Kartel, e trascinato nell’abitazione dell’artista a Kingston con l’accusa di avergli fregato due pistole, sapeva probabilmente che il suo destino era segnato. Ciò che realmente è successo quell’agosto del 2011 lo sanno però solo «Lizard», il quale non può più parlare, Kartel, e i suoi «amici» che invece parlano troppo, e spesso incautamente. Sta di fatto che il mese successivo il cantante è stato arrestato, e da quel momento è rimasto in prigione fino al processo e alla sentenza che, il 14 marzo 2014, lo ha dichiarato colpevole di concorso in omicidio volontario aggravato, e occultamento di cadavere. Perché il corpo di «Lizard» non è mai stato rinvenuto.
Il verdetto si basa essenzialmente su gli sms intercorsi l’8 agosto 2011 tra «Lizard» e Kartel, e tra Shawn Campbell, uno dei guardaspalle di Kartel, condannato insieme a lui, e lo stesso artista al quale l’uomo fa appello: «Mi Boss, wi haffi get back dem ting deh, cause mi not even can sleep…. – «Capo, dobbiamo riprenderci quella roba, perché da allora non riesco a chiudere occhio».
Negli sms spediti alla ragazza, «Lizard» le chiede di andare dalla polizia perché «Teacha» (il Maestro) lo ha mandato a chiamare, ma lui non si può muovere, sapendo che Kartel lo ucciderà per le armi sottratte. Lizard a quel punto scompare. Il 30 settembre la polizia arresta Kartel, a casa sua rinviene tracce di sangue secco che, all’esame del Dna, risulta appartenere a un maschio adulto.
I successivi reperti dell’accusa, sono dei video in cui si scorgono mani e braccia tatuate che armeggiano tra asce, machete e coltellacci; e dove si sentono delle voci poco chiare discutere su come tagliare a pezzi un corpo e dissolverlo nella soda caustica. La difesa smonta però quest’ultima prova attribuendola a una manipolazione della polizia, e lo stesso esperto forense risponde candidamente che potrebbe essere un falso. La sentenza dichiara comunque gli imputati colpevoli. Il 27 marzo si saprà l’entità della condanna.

Il poeta maledetto

Che Kartel oltre alla «spada» sappia usare molto bene anche la penna, è dimostrato dal fatto che non solo scrive da sé le sue canzoni, ma lo fa addirittura per i suoi rivali acerrimi quali Mavado, il leader della Gully label che, opposta alla Gaza di Kartel, anima le clash (battaglie) canore tra i due coinvolgendo i fan in sanguinosi scontri reali. un po’ come accadeva con Beenie Man e Bounty Killer alla fine degli anni 90’ – le due fazioni fecero a pezzi il palco del Sumfest di Montego Bay, lasciando sul terreno feriti gravi.
Due sono le facce, diametralmente opposte, della medaglia Kartel: la prima è rappresentata dalle canzoni sociali nei cd registrati in studio. La seconda è quella «ormonale», motore inarrestabile degli spettacoli dal vivo.
La parte sociale mette al centro la violenza nei ghetti che nella rivolta di Tivoli Garden del 2010 (soffocata nel sangue dalla polizia, un centinaio circa di vittime di cui molte uccise a sangue freddo) ha vissuto la sua apoteosi. Nella visione dell’artista è l’unica riscossa possibile contro la società post coloniale della Giamaica, dove le classi sono sigillate, il ricambio quasi inesistente, e l’accesso a istruzione e servizi sanitari di qualità ristretto ai piani alti; una sorta di apartheid economico acuito da salari miserrimi e alto costo della vita per i generi di prima necessità quali cibo e vestiario.
«If everyday wi til de soil, and Babylon no share the spoil, every day wi a suffer, where is the love for the black child, mister Chin have him own, dem treat wi like dog, and wi still no get no bone» (Where is the love – Vybz Kartel) – «Se ogni giorno coltiviamo la terra, ma’ Babylon non divide con noi i suoi frutti, siamo destinati a soffrire… Dov’è il tanto decantato amore per il bambino nero? Anche lui è proprietà di Mr. Chin, che ci tratta come cani, senza neppure lasciare gli ossi….» (Mr. Chin è il classico arricchito, solitamente cino-giamaicano, parte di una ristretta oligarchia di solito proprietari di supermercati, terreni, e mezzi di produzione). L’ossessione per il denaro, che non è mai sufficiente, e provoca frustrazioni in chi non ne possiede, è descritta in un’altra celebre hit: «Mi hustle di money, mind pon mi money and mi money pon mi mind, di shoota dem a pree di dollar sign, at any given time» (Dollar sign – Vybz Kartel) – «Sono pronto a far soldi con qualsiasi imbroglio necessario, perché la mia mente è sempre sui soldi, e i soldi sono sempre nella mia mente… li guardo adorare il simbolo del dollaro ogni momento della vita».
Il patois è la versione anglofona del creolo, è necessario conoscerlo per apprezzare la dancehall. Che è soprattutto «entertainment», intrattenimento, specie quando si tratta di live shows. E qui entra in ballo il Kartel ormonale, lo scopatore stakanovista: «Oh deh gyal wen di nite get cold, come over here suh come dash out ya hole stiff cocky gone up inna ya hole, stab ya till ya hot catch fever, brassiere pop out with ya soul» (Oh deh gyal – Vybz Kartel) – «Ragazza mia, quando la notte è fredda, vieni qua di corsa che c’è un bel cazzo duro pronto ad entrare e uscire dal tuo buco, ti pugnalerò con quello tante da farti venire la febbre, fino a che il reggiseno e la tua anima schizzeranno fuori…».

Politica e sesso

Al turista che assiste per la prima volta a uno spettacolo di Dancehall, lo scenario può apparire come la versione caraibica dell’inferno dantesco, anche grazie alle luci stroboscopiche, il rullo ossessivo delle drum machines (percussioni elettroniche) e i mixer digitali che robotizzano la voce del cantante. Giovani e adulti si scatenano in balli che mimano l’atto sessuale, il back shot, la nostra «pecorina».
Signore e signorine, strizzate da corpetti minuscoli che fanno scoppiare i seni e pantaloni attillati di pelle urlano a pieni polmoni, e più i testi sono volgari più si divertono, arrivando sovente a invadere il palco, mentre le più ardite cercano di toccare il pene dell’artista. Soprattutto quando questi si chiama Kartel, che ha sostituito Beenie Man nel ruolo di sex symbol ideale. È comunque un gioco, e non bisogna prenderlo troppo sul serio, anche perché la tensione cova sempre, basta magari un pestone accidentale, o una bottiglia di birra versata addosso a qualcuno, per provocare risse da far-west.
Lo star system però è anche ciò che ha rovinato Kartel; negli ultimi anni, oltre a trasportare nella vita privata la finzione delle canzoni, l’artista si è schiarito la pelle, il famigerato bleaching che alle origini disprezzava, additandolo come un retaggio della schiavit. Kartel lascia ora un’eredità pesante ai suoi allievi, i discepoli del Teacha, che escono dalla fucina di talenti che ha creato dal nulla la posse di Gaza: Pop Caan, Jah Vinci, Tommy Lee Sparta, e l’ultimo arrivato, Alkaline, che allo stato attuale è ai vertici delle classifiche. Anche se Kartel continua a scrivere per loro i testi anche dalla cella.
Se le voci che girano nei corridoi della Corte saranno confermate, il 27 marzo, con una condanna a vent’anni non gli resterà molto altro da fare.