Vuoi fare un dottorato di ricerca? Paga. La quarta indagine realizzata dall’associazione dei dottorandi italiani (Adi), presentata ieri nell’aula magna dell’Istituto nazionale di statistica a Roma, illustra uno degli effetti della riforma Gelmini a tre anni dalla sua approvazione. Nove atenei (sui 59 censiti) hanno aumentato tasse e contributi ai dottorandi che hanno vinto una borsa di studio.

Al primo posto della classifica stilata dall’Adi risulta l’università della Basilicata con 1072,48 euro, segue l’università Politecnica delle Marche con 1051,38 euro (+743%), poi Parma (880), Ferrara (600), Bergamo (500), Siena (440) Sassari (379), Piemonte Orientale (346), Palermo (345) e Pavia (293). C’è poi lo scandalo dei «vincitori senza borsa». Oltre alla paralisi burocratica, e alla morte per asfissia da tagli, la riforma Gelmini ha peggiorato l’esistenza dei dottorandi che pagano per fare ricerca. Secondo l’Anvur, tra il 2003 e il 2013 queste figure erano più della metà dei dottorandi: tra il 55 e il 57%. Il boom è stato provocato dalla riforma che ha eliminato il limite massimo dei «senza borsa». Per fermare il ricorso a questi bandi il Ministero dell’Istruzione e dell’università è stato costretto a tornare sui suoi passi fissando al 75% il numero minimo di borse di studio pagate per ogni corso di dottorato.

Per l’Adi questa misura non ha cambiato la situazione. L’università di Salerno, ad esempio, chiede ai ricercatori senza borsa 1875 euro all’anno per i tre anni della durata del dottorato. Seguono Roma Tre con 1763 euro, il Politecnico di Milano con 1640 euro, lo Iuav a Venezia con 1608 euro, La Sapienza (1543), il Politecnico di Torino (1459), l’università mediterranea di Reggio Calabria (1418), la Magna Grecia di Catanzaro (1277), Pisa (1241) e Firenze (1209). L’Adi registra anche casi in cui la tassazione per i senza borsa è diminuta come a Sassari (-78,49%, da 520,75 nel 2012/13 a 112 euro nel 2013-4).

Questa è la difficile strada che aspetta chi ha il desiderio di iniziare un lavoro di ricerca in Italia. Lo Stato considera il dottorando ancora come uno studente che paga le tasse universitarie. Questa tuttavia è solo una parte della verità perchè il dottorando è anche un ricercatore che svolge un lavoro. Questa ambiguità dello status giuridico è unica in Europa. L’Adi chiede di scioglierla creando percorsi ad hoc «funzionali all’assolvimento di ruoli dirigenziali» e vuole eliminare i dottorandi senza borsa che pagano il loro datore di lavoro, l’università, e versando i contributi alla gestione separata dell’Inps.

I tagli all’università e alla ricerca voluti da Tremonti e Gelmini hanno diminuito i posti messi a bando del 19%, con picchi negativi del 38% a Sud, tra il 2008 e il 2014. Lo strumento usato dai governi per ottenere questo risultato è stato il decreto sull’accreditamento che ha accorpato e ridimensionato i corsi di dottorato. Al Sud sono stati tagliati il 57% dei corsi, mentre le posizioni bandite sono diminuite del 15%. ciò ha comportato una drastica diminuzione di proseguire la ricerca.

L’Adi sostiene che la possibilità di continuare a lavorare in questo campo oggi è pari al 3,4% delle possibilità. A questo bisogna aggiungere il blocco del reclutamento dei ricercatori a tempo determinato di tipo A e B. Parliamo delle figure volute da Gelmini per sostituire i «vecchi» ricercatori messi sul binario morto dalla sua riforma. Nel 2013 sono state bandite 520 posizioni per il «tipo A» (contratto di 3 anni) e 130 per quello «B» (contratto di due anni e poi assunzione). Mantenendo i tagli, tra 4 anni, il 96,6% degli attuali 15.300 assegnisti rischia di «essere espulso dal sistema accademico» sostiene l’Adi.

Le conseguenze di una riforma scellerata sono queste. In Italia si contano 0,6 dottorandi ogni mille abitanti: un rapporto inferiore è stato registrato solo in Spagna (0,5) e a Malta (0,2). La Francia ha più del doppio dei dottorandi italiani (70.581), il Regno Unito quasi il triplo (94.494), la Germania 208.500. Ormai ridotti al silenzio gli ultras della «riforma» sostenuta dal Presidente della Repubblica Napolitano, la strategia è chiara: l’università, e con essa la ricerca, sono state distrutte per dimostrare che ci sono troppi dottorati rispetto alle possibilità di assorbirli sul mercato del lavoro. Un teorema falso in partenza che oggi ha trovato un triste inveramento.