«Sei qui per i risultati elettorali? Ritorna tra 6 mesi!». La battuta è ricorrente nella capitale afghana, ancora in attesa dei risultati delle presidenziali del 29 settembre. Un mese e mezzo non è stato sufficiente alla Commissione elettorale indipendente per rendere noti i risultati preliminari, previsti per il 19 ottobre, posticipati per il 14 novembre e forse nuovamente rimandati.

E tanto meno il numero dei votanti, oscillato clamorosamente: il 3 ottobre erano quasi 2 milioni e 700mila, il 2 novembre erano diventati 1 milione 840 mila circa. Perché sono stati esclusi quei voti? Quali voti contare come legittimi? Qual è il numero definitivo? Forse quello inviato alla Commissione dalla ditta Dermalog, che ha fornito gli strumenti di identificazione biometrica e i software per le elezioni? E cosa farne dei voti «in quarantena» perché sospetti?

Questioni tecniche diventate politiche, anche a causa della scarsa trasparenza della Commissione. Che due giorni fa ha avviato il riconteggio di un terzo circa dei voti, provocando la reazione di alcuni candidati, tra cui l’attuale «primo ministro» Abdullah Abdullah e l’ex capo dei servizi segreti Rahmatullah Nabil. Prima del riconteggio, dicono entrambi, occorre definire la lista finale dei votanti. Abdullah ha ritirato i propri osservatori. «Senza, il processo non è valido. Il riconteggio è illegale». La tensione politica cresce. Il presidente in carica Ashraf Ghani, candidato favorito, è accusato di voler incassare una vittoria fittizia. Lui replica che Abdullah mira invece a ridurre il bacino dei voti per avere più possibilità di arrivare al ballottaggio, nel caso nessuno ottenesse il 50% + 1 dei voti. «Nessun ballottaggio, ci sarà un governo a interim», scommettono molti. Soprattutto tra quelli che dietro ogni grana politica afghana vedo le interferenze esterne. Degli americani soprattutto.

«Meglio un risultato accurato che uno affrettato», aveva detto il 15 ottobre la diplomatica statunitense Alice Wells, dando voce alla posizione dell’amministrazione Trump e della comunità internazionale, che chiedeva trasparenza. Oggi la ricerca della trasparenza si è fatta crisi politica. Il Gruppo di sostegno alle elezioni – i maggiori donatori e governi stranieri, tra cui quello italiano – sollecita la Commissione a fare bene, ma in fretta, e i candidati ad abbassare i toni. Ma l’agone politico è diviso più che mai. Conta la posta in gioco elettorale. E la possibilità di scegliere la postura governativa nel processo di pace.

Per 9 mesi il presidente Usa Trump ha chiesto al suo inviato Zalmay Khalilzad di negoziare con i Talebani a Doha, in Qatar. E il 7 settembre, quando la firma del trattato di pace era imminente, ha mandato tutto all’aria. Ridando fiato al presidente Ghani, in affanno e all’angolo nel negoziato. Ora di nuovo in corsa. Ghani ha convinto Pechino a posticipare un incontro intra-afghano tra i Talebani e rappresentanti del governo e della politica e società afghana, previsto per fine ottobre.
«Ecco la lista, perlopiù definitiva».

Ce la mostrano sui telefoni. Circola sulle chat dei circoli del potere, della società civile. Ghani ora pone condizioni per il dialogo, chiede ai Talebani un cessate il fuoco. Ma si adopera per intestarsi la paternità di un gesto simbolico di fiducia reciproca. Lo scambio di prigionieri: due professori dell’American University of Afghanistan, sequestrati dai barbuti, in cambio di pezzi grossi dei Talebani. Meglio, della rete diretta da Sirajuddin Haqqani (il fratello Anas e il cugino Mali Khan Zadran). A dare il via libera all’operazione, fa intendere Nabil, uno dei candidati che contestano il riconteggio elettorale, è stato il generale Faiz Hameed, a capo dell’Inter Services Intelligence, i servizi segreti militari del Pakistan, accusati di sostenere i Talebani. Il generale era a Kabul ieri. Lo scambio potrebbe avvenire presto.