La richiesta di autorizzazione a procedere contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini arriverà in giunta al Senato mercoledì prossimo. Potrebbe innescare un terremoto. Il relatore sarà lo stesso presidente della Giunta per le immunità, il forzista Gasparri: farà partire la giostra illustrando la spinosa faccenda. Poi, entro un mese a partire dalla data di assegnazione del procedimento, 23 gennaio, la giunta dovrà riferire all’aula, previa votazione. Il ministro avrà tutte le opportunità di esporre le sue ragioni e la giunta, se lo riterrà necessario, potrà proseguire per un ulteriore mese. Ma al più tardi per la fine di marzo si arriverà al momento della verità.

Sempre che Salvini non scelga di bruciare i tempi decidendo di “rinunciare all’immunità”, ed è molto improbabile che lo faccia se non, forse, all’ultimo momento. Ieri si è mantenuto su una linea di deliberata ambiguità. «Confesso che avrei voglia di andare fino in fondo e farmi convocare a Catania», esordisce spavaldo. Poi però smorza: «Ma c’è il Senato che è sovrano e deciderà». L’occasione di massimizzare i profitti elettorali mettendo nei guai i soci a 5 stelle è ghiotta e Salvini non intende farsela scappare.

Per i 5S il guaio, se Salvini non deciderà di rinunciare all’immunità, sarà formato Mammuth. La conferma del massimo imbarazzo in cui versa il Movimento è offerta dal silenzio di Luigi Di Maio, che negli ultimi due giorni si è sentito a più riprese con il collega vicepremier. Giovedì sera era attesa una sua dichiarazione. Non è arrivata e il mutismo è proseguito ieri.

La concessione delle autorizzazioni a procedere è inscritta nel cuore del dna pentastellato, che infatti non ha mai nella sua storia votato contro. Non solo gli elettori ma gli stessi parlamentari si aspettano che quella linea venga confermata. Ma votare a favore di un procedimento contro il principale alleato, non per un reato comune ma per una decisione del governo che i 5S hanno condiviso, significherebbe quasi certamente aprire la crisi e poi, Mattarella permettendo, dover affrontare una campagna elettorale che per Salvini sarebbe sul velluto e a spese proprio loro.

La faccenda è ulteriormente complicata dall’offensiva leghista sulla Tav, materia che per l’identità dei 5S sta quasi alla pari con il giustizialismo anticasta. Salvini ha vinto ai punti la partita sulle trivelle, ma finge di averla persa per reclamare ora il via libera alla Tav e sulle trivelle il Movimento non può certo ammettere di aver sostanzialmente ceduto. Deve reggere il gioco trovandosi così quasi con le spalle al muro sulla Torino-Lione.

In difficoltà, però, non c’è solo il partito di Di Maio. Il Pd se la vede quasi altrettanto brutta. Ieri il candidato alla segreteria Maurizio Martina ha sfoderato la sciabola: «La legge è uguale per tutti. Salvini se ne faccia una ragione». Lontano dai microfoni, però, i dubbi si affollano. In commissione i rappresentanti del Pd sono quattro, tre renziani e un orlandiano. Se i 5 Stelle voteranno a favore dell’autorizzazione quei voti del Pd faranno pendere la bilancia contro Matteo Salvini, nonostante l’appoggio di Forza Italia e FdI. Anche per il Pd, però, ciò significherebbe mettere in conto la probabilità di crisi e nuove elezioni nel momento per loro peggiore e con tutti gli assi in mano al capo leghista. D’altra parte ci vuole poco a immaginare quale sarebbe la reazione dell’elettorato se a salvare Matteo Salvini fosse proprio il Pd.

Sullo sfondo si delinea però un conflitto potenzialmente anche più pericoloso, non per il governo o per i singoli partiti ma per gli equilibri istituzionali. Ieri l’Anm ha diffuso un comunicato molto duro, attaccando alcuni giornali per articoli nei quali «vengono attribuite ai magistrati posizioni preconcette» laddove i medesimi «svolgono la propria attività seguendo il dettato costituzionale dell’imparzialità». Ma è facile prevedere che, se si procederà contro di lui, Salvini si appellerà agli elettori. Con tutte le intenzioni di contrapporre il «popolo sovrano» alla magistratura.