Oggi Israele va al voto. Le previsioni sembrano sfavorevoli per il primo ministro Benjamin Netanyahu, ma questo non significa che ci si possa attendere cambiamenti reali nel clima politico, che attualmente risulta davvero problematico. La questione centrale non riguarda tanto la natura della futura coalizione, di centro, destra o sinistra; il lato più tragico di questa contesa elettorale, infatti, è la mancanza di un’alternativa reale, seria, sia in termini di pace e guerra che di sfida all’egemonia neoliberista che domina il paese.

E’ probabile che il candidato laburista Izhak Herzog ottenga più voti di Netanyahu nel prossimo parlamento, ma è molto difficile prevedere se riuscirà a formare una coalizione senza la destra. Per il momento i partiti di destra hanno la maggioranza e solo calcoli tecnici relativi alla soglia minima necessaria per entrare in parlamento (al 3,25%) potrebbero lasciare fuori uno o due partiti di estrema destra.
Ironia dei calcoli: a introdurre la legge che ha elevato la soglia minima è stato il ministro degli esteri Liberman che oggi potrebbe far fatica a superarla. Il suo obiettivo era chiaro: lasciar fuori i partiti votati dagli elettori arabo-israeliani.

Ma proprio questa legge ha dato impulso alla creazione di una lista unificata nella quale sono presenti quattro partiti fondamentalmente arabi che insieme potrebbero ottenere da 12 a 14 seggi.
Liberman, che certi idioti della pseudo-sinistra continuano a considerare un pragmatico, potrebbe unirsi a una coalizione di centrosinistra; nelle ultime settimane è diventato il portavoce più veemente del razzismo ultranazionalista e antiarabo. All’estrema destra non mancano elementi estremisti che hanno fomentato attacchi violenti contro Hanin Zuabi, la controversa deputata che fa parte della lista araba unificata. Sono i successori dell’ultrarazzista Cahana che sembra sorrider loro dalla tomba. Il problema, tuttavia, non è l’estrema violenza verbale degli elementi più razzisti e ultranazionalisti: il problema è il silenzio quasi totale di chi era loro oppositore.

A parte Meretz, il partito della sinistra liberale, non si sono ascoltate voci realmente critiche. Prevalgono piuttosto i calcoli circa le future possibili coalizioni. Perché criticare e dar fastidio al razzista Liberman se domani per ragioni di sopravvivenza politica egli potrebbe entrare a far parte della coalizione di centrosinistra? Perché ricordare al molto liberale Lapid quel che disse alle scorse elezioni, che non avrebbe mai fatto coalizione con gli arabi, come oggi l’attuale «centrista» Kahlon (un transfuga del Likud) che ugualmente non accetterebbe questa «trasgressione»? Sono entrambi di «centro»; Kahlon è molto popolare perché da ministro delle comunicazioni di Netanyahu fece pressione sulle compagnie telefoniche che ridussero notevolmente le tariffe…l’uno e l’altro sono un’ulteriore versione del credo neoliberista.

E’ stato Netanyahu a decidere di andare al voto, convinto di non avere alcun avversario pericoloso. Non ha tenuto conto del clima di malcontento iniziato con le proteste del 2011, quando in tanti erano scesi in strada contro il deterioramento della situazione economica, il costo della vita, gli alti prezzi delle case. La decisione del leader laburista Herzog di unirsi, con i suoi 14 seggi, al gruppo di Tsipi Livni, la problematica leader di Kadima già ministra degli esteri e poi ministra della giustizia con Netanyahu, dopo essere stata considerata una mossa stupida ha suggerito a molti un passo in favore dell’unità, insomma a sorpresa ha funzionato bene.

Oggi Herzog potrebbe ottenere alcuni seggi più di Netanyahu, ma quale significato avrebbe una sua vittoria? Per il momento, sembra che il blocco di destra abbia maggiori possibilità di formare una coalizione, perché in totale dovrebbe ottenere più seggi: la popolazione in Israele è diventata più di destra, più nazionalista, più razzista. Ma se Herzog ottiene più deputati del primo ministro, potrebbe crearsi una dinamica interessante nei negoziati post-elettorali, dal momento che alcuni del «centro» così come alcuni religiosi ortodossi potrebbero allearvisi.

Netanyahu non ha capito che stavolta il malcontento nei suoi confronti è enorme. Ha fallito in tutti i campi ed è difficile trovare qualcosa di positivo in questi suoi ultimi sei anni di governo. Si lamentano anche a destra: per molti, i 50 giorni di guerra la scorsa estate hanno dimostrato che il premier non è un vero falco perché non ha distrutto Hamas e non è entrato a Gaza.

Molte di queste persone di destra sono povere o di classe medio-bassa, che il malcontento sociale aveva fatto votare per Kahlon, ex ministro del Likud, frustrato e offeso da Netanyahu. Egli adesso gioca a fare il centrista e promette grandi riforme senza però intaccare l’economia di mercato né la fede neoliberista.

Yair Lapid, che con la sua demagogia da quattro soldi aveva saputo sfruttare le proteste del 2011 arrivando a 19 seggi, è stato un fallimento e sembrava già finito prima della convocazione delle elezioni. Con menzogne, demagogia e pesanti attacchi a Netanyahu, sembra recuperare e collocarsi ugualmente al «centro».

La lista araba unificata è forse il fenomeno più importante e interessante di queste elezioni, grazie al cambiamento ai vertici del Partito comunista israeliano. Dopo lunghi e sterili anni di leadership fossilizzata, poco prima dell’unificazione il partito ha scelto un giovane leader, Aiman Uda, che oggi guida la lista e sembra muoversi con grande abilità, e con un notevole riscontro sui media.

E’ l’immagine di un leader palestinese-israeliano che sa trasformarsi in leader israeliano e unificare i diversi settori della società. Uda oggi è conosciuto e rispettato benché la lista unificata sia davvero problematica: sembra difficile che un insieme di fondamentalisti islamici, ultranazionalisti arabi, due poligami e il Partito comunista riesca a riformare davvero la politica; è chiaro che ci sono molte probabilità che l’unità si rompa poco dopo l’ingresso nella Knesset.

Di fronte alla linea di Netanyahu, con la sua alleanza fondamentalista–ultranazionalista e la distruzione dell’incerto processo di pace, l’opposizione non sembra avere la statura politica necessaria per avviare un cambiamento radicale e un vero dialogo di pace con i palestinesi.

Di fronte al neoliberismo degli ultimi 30 anni, con Netanyahu nel ruolo del paladino più fedele, l’opposizione non sembra essere un’alternativa reale e condivide molte delle grandi «verità» della grande «chiesa dei credenti nel sacrosanto libero mercato». Adesso sono tutti al «centro», mentre Israele, come l’Europa, avrebbe bisogno con urgenza di leader simili a quelli greci.

Anche se oggi le elezioni registreranno un cambiamento, in ogni caso le fosche nubi del nazionalismo, della guerra, del razzismo e del neoliberismo continuano a minacciare il futuro della regione.