Le elezioni del parlamento catalano di oggi arrivano con un anno di ritardo. A gennaio 2020, l’allora presidente Quim Torra, erede politico di Carles Puigdemont (oggi europarlamentare autoesiliato a Bruxelles per sfuggire alla giustizia spagnola), dichiarò che era scaduto il tempo del governo da lui presieduto.

La guerra sotterranea fra i due partiti indipendentisti che lo conformavano, Esquerra republicana de Catalunya (Erc), e il suo proprio, Junts per Catalunya, sembrava essere arrivata al capolinea.

“Appena approvato la finanziaria 2020”, disse Torra, “convocherò le elezioni”. Il budget, il primo dal 2017, e l’unico che questo governo è riuscito a portare a casa, venne approvato ad aprile, e solo con l’aiuto di En comú podem, il partito della sindaca Colau nonché marca catalana di Podemos, che non era socio di governo. Ma in quel momento la crisi pandemica era al suo culmine e il govern ha proseguito il suo accidentato cammino.

Dopo l’estate, un nuovo colpo: Torra è stato interdetto dai pubblici uffici in forza di una sentenza passata in giudicato per un reato commesso in campagna elettorale. Il suo rifiuto, tutto simbolico, di togliere uno striscione a favore dei prigionieri politici catalani, in carcere per aver organizzato il referendum illegale del primo ottobre 2017, gli è costato la sua carica politica. Visto che i tre partiti indipendentisti (Erc, Junts e la Cup, il partito assemblearista di estrema sinistra grazie al quale Torra era presidente) si sono rifiutati di cercargli un sostituto, automaticamente sono scattati i termini per la convocazione delle elezioni di oggi.

Dal 30 settembre alla guida del governo ad interim c’è Pere Aragonés, di Erc, e numero due del governo Torra. Oggi guida il suo partito (in sostituzione di Oriol Junqueras, in carcere), in una guerra all’ultimo voto per conquistare, per la prima volta dai tempi della Repubblica negli anni 30, l’egemonia della politica catalana e dell’indipendentismo.

I suoi principali avversari sono due: Laura Borràs, che guida Junts in nome e per conto di Puigdemont, sulla quale pesa un’inchiesta per aver firmato contratti irregolari quando guidava l’Istituto delle lettere catalane. La sua lista, piena di suprematisti catalani (alcuni parlano dei catalani che non parlano catalano come “invasori”), è data quasi alla pari con Esquerra, nonostante da Junts si sia scisso il PdCat, partito che vorrebbe incarnare l’anima conservatrice pragmatica e catalanista di Convergència Democràtica de Catalunya, il cui ultimo esponente fu Artur Mas, predecessore e mentore di Puigdemont, fatto fuori per il rifiuto della Cup di investirlo a gennaio 2016.

Il sostegno di Mas non sembra sarà sufficiente a Àngels Chacón, ex ministra di Torra, per ottenere rappresentanza. Il terzo frontliner è il partito socialista catalano (Psc), che ha scelto di presentare l’ex ministro Salvador Illa invece del segretario del partito, Miquel Iceta, diventato a sua volta ministro di Sánchez. Nonostante il gran parlare dell’“effetto Illa” non è chiarissimo se davvero riuscirà ad arrivare primo (l’ultima volta per i socialisti da queste parti è stato nel 2003, anche se hanno governato in coalizione, il “tripartito”, con Erc e la sinistra di Icv – oggi dentro En comú podem – fino al 2010).

Illa ha giurato che non negozierà con Esquerra, mentre tutti e 4 i partiti indipendentisti hanno addirittura firmato un manifesto in cui si impegnano a non governare con il Psc. Jessica Albiach, portavoce di En comú podem, è l’unica che propone la soluzione realista per rompere il blocco politico catalano: un nuovo tripartito con socialisti e Erc, per fare politiche di sinistra. Ma Erc non può permettersi di essere tacciata di collaborazionismo con Madrid dagli altri indipendentisti e il rischio è che sarà nuovamente costretta a assumere un’alleanza con Junts.

La candidata della Cup, Dolors Sabater, non sembra preoccupata dalla prospettiva di fare presidente Borràs, basta che non sia Illa. A destra, oltre a Junts, troviamo Ciudadanos, primo partito 4 anni fa, guidato da Carlos Carrizosa (dopo che Inés Arrimada ha assunto la guida del partito a Madrid), destinato a perdere la metà dei seggi. Il candidato, nero, di Vox, Ignacio Garriga, spera di entrare nel parlamento catalano col solito discorso basato sull’odio per immigrati e minori non accompagnati, con lo spauracchio della criminalità. Il Pp, da sempre residuale in Catalogna, con Alejandro Fernández, lotta per non perdere i suoi pochi seggi cedendo la guida della destra a Vox.