I «furbetti» del referendum sulla liberalizzazione-privatizzazione di Atac, l’azienda romana di trasporto pubblico, che si terrà domani (Radicali, Fi e il Pd romano) ce l’hanno messa tutta per far passare se stessi come gli unici innovatori e i sostenitori del no come i grigi difensori dello status quo. Purtroppo per loro poiché è vero l’esatto contrario, il gioco non è riuscito. Sono trenta anni che moltissime aziende pubbliche sono state sottoposte alla cura delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni e oggi il mondo degli economisti -a parte i pasdaran del pensiero neoliberista- si interrogano sul disastro avvenuto. La sfera pubblica si è impoverita e i privati hanno macinato utili vertiginosi a scapito dei servizi erogati e, come nel case del ponte di Genova, a scapito della sicurezza dei cittadini.
Evidentemente non soddisfatti del disastro, i promotori del referendum vorrebbero applicare quelle stesse ricette anche al trasporto locale. Il primo quesito riguarda la possibilità di liberalizzare il servizio mettendolo a gara. Il secondo apre addirittura alla possibilità di presentare proposte sostitutive delle linee esistenti: si spalanca la porta a colossi come Uber. Questi innovatori all’amatriciana non si sono dunque accorti che se vogliamo rilanciare il paese, il tema fondamentale è quello di ricostruire l’ossatura delle amministrazioni e delle aziende pubbliche.
Il vasto fronte del No (i tre sindacati confederali, Usb, i comitati Atac bene comune, Mejo de no e Calma) ha svelato bugie e furbizie dei sostenitori del referendum. A partire dal silenzio sul fatto che a Roma la privatizzazione già esiste da venti anni. Le periferie romane sono infatti servite da Tpl, una società interamente privata che gestisce circa il 40% dell’offerta di trasporto e non brilla certo per efficienza.
Questa stessa mancanza di efficienza riguarda naturalmente anche Atac e qui si può misurare la profonda distanza tra i due schieramenti. I sostenitori del No hanno infatti impostato la loro campagna sul fatto che il debito di Atac (circa 800 milioni) non è dovuto soltanto alla difficoltà di servire una città frammentata dalla speculazione immobiliare e dall’abusivismo, ma anche dalla scandalosa ingerenza della mala politica sull’azienda. Con Alemanno furono assunte a chiamata diretta 784 persone, lo scandalo «parentopoli». Ogni anno queste assunzioni sono costate 30 milioni, 300 milioni in dieci anni. Stesso discorso vale per i dirigenti, oltre 100, e i manager cambiati vorticosamente e ricompensati con buonuscite milionarie: in dieci anni ci sono costati 200 milioni. La politica dell’occupazione del potere ha pensato anche di clonare i biglietti, sottraendo alle casse pubbliche altri 70 milioni di euro. Insomma, la mala politica ha formato un debito di Atac di circa 600 milioni.
Lo schieramento del No ha posto al primo punto della sua piattaforma la chiusura di questo vergognoso processo per lasciare tutte le aziende pubbliche nella mani di persone capaci e indipendenti nominate da organismi di terzietà. Il solo modo per risanare le aziende non è liberalizzarle, ma metterle nella condizione di aprirsi a nuove competenze e tecnologie. Tecnologie che serviranno per chiudere un’ulteriore vergogna di cui non si trova traccia nei quesiti referendari. Atac trasporta il 56% della platea degli utenti su autobus vecchi e inquinanti che restano soffocati nel traffico quotidiano della città, Milano ne trasporta l’80% sulla rete del ferro. Occorre dunque invertire le modalità di trasporto costruendo quelle linee tramviarie di cui Roma è pressochè priva. Anche in questo caso, è il pubblico che deve compiere il salto di qualità, programmando, trovando le risorse e avviando la realizzazione delle opere.
Privatizzazioni e liberalizzazioni non servono. La capitale ha il dovere di lanciare un messaggio chiaro a tutto il paese: quello di chiudere la stagione del neoliberismo e di ricostruire aziende efficienti e governate da persone estranee alle lobby dei partiti. Per aprire questa fase si deve dire No a questo referendum.