La critica giapponese lo ha messo tra i dieci migliori film dell’anno, e sul New York Times lo hanno definito: «Un film ardente, che si avrebbe voglia fosse una miniserie per prolungare il piacere della visione». Ha una giusta punta d’orgoglio nella voce quando lo dice, e gli occhi che brillano, Margarethe Von Trotta. Eppure questo suo Hannah Arendt in Italia non ce l’avrebbe mai fatta a uscire in sala ( il 27 e 28 prossimi, in occasione della Giornata della memoria; per saperne di più: www.nexodigital.it) senza l’energia di una piccola distribuzione indipendente, la Ripley’s che lo distribuisce in versione originale – fondamentale per capire il lavoro sull’accento fatto dalla protagonista, Barbara Sukowa, icona della cineasta, nel dare vita alla filosofa tedesca.

Una storia di donne possiamo anche dire, in affinità a quei personaggi femminili di intelligenza rivoluzionaria e disturbante – in un mondo maschile – che abitano il cinema di Von Trotta: tra le altre Rosa Luxemburg, Hildegard von Bingen, o le sorelle di Anni di piombo, perché Von Trotta come molto cinema tedesco della sua generazione (penso a Fassbinder) ha scavato dentro al terrorismo nel suo paese senza retorica né enfatici imbarazzi bugiardi.

Lei sorride, e racconta di quando girando alcune scene in Lussemburgo, nell’ufficio del rettore dell’Università, questi le abbia detto: «Non ho mai sentito muovere rimproveri e accuse a colleghi maschi come quelli scagliati contro Arendt». La definirono senza sentimento, fredda, dura. Arrogante, persino nazista, lei che era ebrea, finita nei campi, e sfuggita quasi per azzardo alla deportazione e allo sterminio. Per non dire delle «gentili» missive con aggettivi più comuni quando si parla di donne, puttana in testa.

Siamo nel 1960, a New York, dove Arendt vivrà fino alla morte, nel 1975. Il periodo che Von Trotta, e la cosceneggiatrice del film Pamela Katz hanno scelto per il film, è quando la filosofa accetta la proposta del New Yorker di coprire per loro con una serie di articoli il processo in Israele al nazista Adolf Eichmann. Arendt a differenza di altri vuole capire cosa è accaduto, le ragioni e le modalità. E anche altro, perché ad esempio, il suo maestro Heidegger si era messo dalla parte dei nazisti. «Arendt crede ancora nell’utopia del pensiero, nella forza della filosofia che può costruire un mondo diverso» dice Von Trotta.

Gli amici cercano di scoraggiarla, l’uomo con cui vive e al quale è legata da un amore intenso e libero pure. La filosofa è un riferimento centrale nell’ambiente newyorchese intellettuale, gli studenti in facoltà la amano, le discussioni accese con i vecchi amici, molti dei quali fuggiti dall’Europa come lei, sono la consuetudine di lunghe serate. Gli articoli scateneranno una tempesta, una vera guerra sull’Upper West Side. La banalità del male, questo il titolo italiano del libro che nascerà da quegli articoli, si interroga su temi tabù, come il ruolo dei Consigli ebraici di fronte al nazismo, che per il solo affrontarlo – ma era un elemento emerso nel processo – Arendt venne accusata di essere pro-Eichmann contro gli ebrei. Ma soprattutto Arendt si interroga sulla responsabilità personale nel male, e sul rapporto tra questa e il sistema fuori da ogni manicheismo: il nazismo sarebbe stato lo stesso se non avesse avuto un appoggio collettivo?

Su questo testo, proibito in Israele, ha lavorato Eyal Sivan per il suo Uno specialista, film di montaggio con gli archivi del processo Eichmann. E vedendo la Hannah Arendt di Von Trotta, non stupisce la passione di Sivan, tra i registi israeliani più lucidi e pure più detestati in Israele, per lei. Anche di Sivan dicono che è arrogante e pieno di disprezzo perché nei suoi film rifiuta l’ideologia della vittima, elemento fondante la mitologia dello stato ebraico.

Nel suo nuovo film, Le Dernier des Injustes, il regista francese Lanzmann riprende in mano una lunga intervista, realizzata nel ’75 a Roma, con Benjamin Murmelstein, il rabbino che nel ’44 è stato il responsabile del Consiglio ebraico nel ghetto di Terezina, e tra i pochissimi sopravvissuti. Murmelstein, e con lui Lanzmann, parla con disprezzo di Arendt dicendo che non aveva capito nulla, eppure ascoltando quella zona di ambiguità implicita – o forse necessaria – nel suo operato le considerazioni di Arendt appaiono estremamente precise.

Dice ancora Von Trotta: «Arendt lascia la Germania quando i nazisti arrivano al potere. In Francia viene imprigionata perché è tedesca. In America si sente finalmente a casa e gli attacchi contro di lei dopo gli articoli sul processo Eichmann sono come un nuovo esilio». Quando sul letto di morte, a Gerusalemme, una delle persone che le sono più care al mondo le volta le spalle chiedendole: «Non ami il tuo popolo?», cioè Israele, lo stato ebraico, lei risponde: «Amo gli individui, gli amici, le persone a cui voglio bene». E un altro dei suoi più vecchi amici che la rifiuta per sempre, le dice che lei si considera ancora tedesca. Ma lo era, come erano francesi, italiani o quant’altro gli ebrei che a un certo punto diventano solo tali, e per questo da sterminare. «Mi mettere al centro nei miei film personaggi che amo e che mi interessano. Non cerco di dare un messaggio, e qui se ce ne è uno, è che si deve sempre pensare con la propria testa. Arendt in questo è stata una grande maestra».