Per molto tempo il profilo artistico di Volponi è stato costretto, almeno nella vulgata, dentro i limiti risicati di un certo neorealismo italiano, inteso come rappresentazione letteraria degli anni del miracolo economico, e collocato all’interno della querelle sui rapporti fra industria e letteratura. Anche nelle letture scolastiche spesso l’unica opera a essere antologizzata è il romanzo d’esordio Memoriale, col suo eccentrico protagonista operaio. Ancora oggi nel senso comune non sempre si percepisce che peculiare tipo di scrittore è stato Paolo Volponi. Raffinato romanziere dai diversi e divaricati temi e registri, potentissimo poeta, saggista acuminato e immaginoso. Senza dimenticare che la figura è di quelle spurie e multiformi. Volponi fu dirigente industriale di primo piano nella Olivetti degli anni d’oro, e poi, per poco tempo e in modo controverso, anche nella Fiat. L’uscita recente di tre libri di e su Volponi ci aiuta a riaprire questo dossier.
Con la curatela attenta e partecipe di Salvatore Ritrovato e Sara Serenelli escono dunque per Einaudi le inedite Poesie giovanili («Collezione di poesia», pp. 96, € 11,00). In effetti addirittura prima di essere prosatore Volponi fu apprezzato poeta con le raccolte Il ramarro (1948), L’antica moneta (’55) e Le porte dell’Appennino (’60). Adesso grazie a questo agile volume è possibile osservare in vitro quel magmatico laboratorio sperimentale da cui nasceranno proprio le prime raccolte. Ne sortiscono non poche sorprese. Viene revocato in dubbio il presunto ermetismo originario di Volponi. Con le parole di Ritrovato, dall’Introduzione: «Bisogna riconoscere che questi versi del giovane Volponi permettono di cogliere il poeta ai suoi esordi di “lirico” tutt’altro che ermetico, e forse neppure post-ermetico, colmando gli spiragli esistenti tra un sobrio, misurato simbolismo e uno sbiadito naturalismo pascoliano». Le immagini adoperate dal poeta sono forti ed estreme, poco allusive, e «premono su una accelerazione fisica, sanguigna, per non dire “corporale”, della parola».
Seguendo il procedimento inverso, andando cioè a studiare l’esito che certi audaci passaggi lirici originari conoscono nei versi del Ramarro, si può osservare un deciso processo di attenuazione e smorzamento della primitiva fisicità corporale. Fra piglio antieroico e frantumazione sintattica, si può intravedere in queste pagine la matrice del primo Ungaretti con i suoi versicoli. Secondo Ritrovato si può parlare «della tentazione di un crudo e ruvido nominalismo; di certe slogature discorsive che sospendono lacerti di testo in gesti assoluti». E forse si potrebbe accennare anche a quei barlumi figurativi, pronubi di futuro, che si irradiano dai versi «con l’augurio di dodici uccelli / che specchiano / il volo nella corazza»: una felice tarsia iconica ispirata all’amatissimo Piero della Francesca. Di fatto questo materiale germinale testimonia di una ricerca creativa in cui si alternano residui di un ermetismo metaforico a tratti spigoloso («spiazzo d’afa», «digiuno d’astri») e teso a concretizzare l’astratto, con un tono invece affabile, dal dettato piano e disteso, quasi già «antinovecentista» (vedi Raccogli le tue membra).
Con un notevole salto di scala passiamo dal microscopio orientato sulle cellule primigenie della poesia al telescopio panoramico con cui Enrico Capodaglio percorre l’intero corpus romanzesco (Paolo Volponi romanziere Il fascino della società, Associazione culturale “La Luna”, pp. 259, € 20,00). E lo fa con piglio simpatetico e appassionato fervore. Qui il critico si sente in qualche modo implicato nella materia che disseziona. Fino a confessare apertamente come il proprio stile di scrittura subisca l’influenza della poetica volponiana. All’origine di tutto c’è il Leopardi teorico dello Zibaldone, che si esprime in favore di una lingua «naturale», sobria ma sapida, corposa, ricca di umori metaforici, che parlano ai sensi e quindi all’intelletto. Tanto più che il procedimento dello «scambio fra il fisico e lo psichico» è, fra quelli stranianti, uno dei più scandagliati da Capodaglio, in particolare nei romanzi a lui più cari, La strada per Roma (1991) e Corporale (’74). È in essi inoltre che il fondamentale cronotopo urbinate, opposto a quello «industriale» milanese ed evoriense, declina temi e stile «in senso organicistico e finalistico». Perfino la fredda allegoria si permuta in qualcosa di «terrestre». Ed elude così ogni staticità meccanica, assumendo il valore di un’azione sociale che impatta sulla potente vitalità del mondo; e da essa trae forza. Quello che importa allora è che l’allegoria immanente di Volponi sia sempre «in relazione con tutto ciò che esiste, in infinite corrispondenze giocate in via orizzontale, senza picchi o alture metafisiche». In essa «conta il monito: agisci, rompi la tela!».
Se Capodaglio getta uno sguardo equanime e onnicomprensivo su tutta l’opera romanzesca, Tiziano Toracca decide di individuare il midollo del leone della produzione dell’autore, e di concentrare solo su di esso l’analisi critica (Paolo Volponi, Morlacchi, pp. 245, € 16,00, con postfazione di Massimiliano Tortora). Qui la scelta, netta e ben argomentata, cade sulla triade utopico-apocalittica costituita da Corporale, Il pianeta irritabile (1978) e Le mosche del capitale (’89). Il punto di partenza è, nell’epoca del pericolo atomico sempre più incombente, la dicotomia che mette in fibrillazione la scrittura visionaria di Volponi, lacerata com’è dal dissidio fra una razionalità alienata e «bombesca», e una diversa razionalità animale verso cui dovrebbe tendere ogni tentativo di mutazione della natura umana. La disarticolazione del protagonista di Corporale in ben tre diverse maschere narrative rappresenta bene questo campo di tensioni e mutamenti. Dopo, nel Pianeta irritabile lo scrittore non farebbe altro che dare spazio e rappresentazione a questa mutazione antropologica che, scartando da ogni desueto antropocentrismo vira, sempre con Leopardi, verso nuove forme di comunità solidale, in cui uomini animali e piante vivono in simbiosi e con spirito di condivisione. Al di là delle forme sociali tiranneggiate dal capitale, quello a cui si dà finalmente corpo è dunque un «pianeta senza moneta».
Qui Volponi, quasi per equilibrare la spinta fantastica e visionaria di un romanzo sbilanciato verso il futuro, recupera un grande classico della letteratura mondiale come Shakespeare, ma visto attraverso il Marx umanista dei Manoscritti economici-filosofici. La tirata polemica dell’elefante Roboamo contro la forza corruttrice del denaro non è altro, ci spiega Toracca, che una ripresa quasi letterale di un celebre passo del Timone d’Atene, che folgorò appunto Marx. Anche nelle Mosche del capitale Volponi gioca con le citazioni, talora ribaltandone il senso. È quanto accade col protagonista Saraccini, brillante dirigente industriale, che stralcia una pagina da Orgia di Pasolini sul rapporto fra libertà, conformismo del potere e carità. Nel gesto con cui Volponi capovolge, di sicuro a bella posta, il senso di quanto scriveva Pasolini, si potrebbe riconoscere un sintomo della falsa coscienza di Saraccini, di quell’indulgenza verso se stesso che lo porta a rimuovere le proprie compromissioni col potere aziendale e la sua ideologia, e dunque il suo fallimento. Certamente, come scrive Toracca, «Saraccini viene strumentalizzato dal potere, ma non è una mosca». E semmai ad avvicinarlo a quest’ultime è un «comune destino di passività». Ma è precisamente questo destino che invece lo allontana, al di là di evidenti sovrapposizioni biografiche, dal Volponi scrittore delle Mosche che a quella passività oppone un atto cosciente di resistenza poetica, tanto doloroso quanto cristallino. Lo fa proprio col suo romanzo, condito da una carica demistificatrice potente, che ha pochi eguali nella nostra letteratura. Così le Mosche mettono alla berlina le storture e le profonde ingiustizie di un sistema economico e sociale che mostra, oggi più che mai, tutti i suoi pericolosi limiti. E così prova con coraggio a colmare quell’abisso tra forma e realtà che si spalanca davanti agli occhi di chi non si rassegna semplicemente a descriverlo.