William T. Vollmann è un caso unico nella letteratura americana contemporanea: nonostante sia considerato a ragione uno dei più grandi scrittori del nostro tempo, e nonostante il suo romanzo Europe Central abbia guadagnato una certa notorietà grazie al National Book Award vinto nel 2005, la sua produzione letteraria non ha ancora ricevuto l’attenzione che merita. Del resto, non è facile tenere il passo di un grafomane tanto geniale quanto compulsivo, che dal 1987 a oggi ha scritto oltre trenta libri, quasi tutti di mole dickensiana.

Le sue opere affrontano una sorprendente molteplicità di temi, spostandosi continuamente tra fiction e non fiction, esperienza personale e ricerca storica, e sgusciando con disinvoltura tra i paradigmi e gli schemi ciclicamente proposti dai critici. Nato in California nel 1959, Vollmann appartiene a quella generazione di romanzieri (di cui fanno parte anche David Foster Wallace, Richard Powers, Jonathan Franzen) che si sono affacciati alla ribalta letteraria verso la metà degli anni Ottanta e che nutrono sentimenti complessi e contraddittori verso il retaggio dei «padri» postmoderni: da un lato ne raccolgono la preziosa eredità, riconoscendo le chances stilistiche offerte dalle sperimentazioni di scrittori come Thomas Pynchon, Robert Coover, William Gaddis; dall’altro avvertono nell’eccessiva autoriflessività e nel cinismo compiaciuto e spesso involuto di molta narrativa postmodernista i sintomi di un malessere culturale, al quale vorrebbero contrapporre una scrittura sincera, empatica, capace di stabilire un rapporto intimo con il lettore e di affrontare in modo costruttivo le preoccupazioni morali e culturali del nostro tempo.

Storie simboliche
Vollmann è riuscito a elaborare una sintesi inedita tra queste due istanze solo apparentemente opposte, proponendosi come ponte ideale tra l’enciclopedismo postmoderno e l’attitudine introspettiva e engagée tipica della sua generazione. Ha una scrittura che unisce alla complessità formale e a una forte componente metafinzionale un altrettanto vigoroso impegno verso la dimensione etica. Nel corso della sua carriera si è spinto ben al di fuori della propria «comfort zone» per esplorare di volta in volta il mondo delle prostitute di strada, dei senzatetto, dei tossicodipendenti, dei clandestini, dei lavoratori sfruttati e maltrattati.
Dalla cosiddetta trilogia della prostituzione (Puttane per gloria, Storie di farfalle e The Royal Family) agli esperimenti di cross-dressing narrati in The Book of Dolores; dal viaggio in Afghanistan intrapreso nel 1982 per combattere al fianco dei Mujaheddin alla spedizione a Fukushima dopo l’incidente del 2011, fino ai due recenti volumi di denuncia sui disastri ambientali causati dello sfruttamento del petrolio e degli idrocarburi, Vollmann ha costruito la propria persona su una serie di stridenti contraddizioni che si rispecchiano negli alter-ego dei suoi libri (l’avventuriero irruento, il topo da biblioteca, il gentiluomo romantico, l’amante delle prostitute).
Nessuno più di lui «contiene moltitudini»: in un’intervista si è dichiarato candidamente a favore del possesso di armi, del suicidio, dell’eutanasia, dell’aborto, della pena di morte. La morte e le armi sono una costante dei Sette sogni, un monumentale ciclo di romanzi centrati sull’impatto, immancabilmente nefasto, dei colonizzatori europei e della loro tecnologia sulle popolazioni native americane in diversi momenti storici. Vollmann l’ha definita una «”storia simbolica”, ovvero un racconto di origini e metamorfosi che spesso è falso, se messo in relazione con i fatti reali così come noi li conosciamo, ma la cui inesattezza svela un più profondo senso della verità». Un progetto tanto affascinante quanto ambizioso, che ridefinisce l’idea stessa di romanzo storico mescolando generi diversi come il racconto di viaggio, il reportage, la ricostruzione storiografica, l’autobiografia e l’epica.

Nonostante negli Stati Uniti siano già usciti cinque dei sette volumi, in Italia finora erano apparsi solo i primi due: La camicia di ghiaccio (centrato sullo sbarco dei vichinghi nell’attuale Groenlandia tra il IX e il X secolo) e Venga il tuo regno (sulla colonizzazione da parte dei gesuiti francesi di alcuni territori del Quebec nella prima metà del Seicento), entrambi usciti per la coraggiosa editrice Alet, che ha cessato purtroppo le pubblicazioni. Ora minimum fax dà finalmente alle stampe il terzo volume dei Sogni (il sesto nella cronologia degli eventi), I fucili (pp. 470, euro 19.00), in un’elegante edizione curata fin nei minimi dettagli e valorizzata dalla splendida traduzione di Cristiana Mennella, cui si aggiungono le mappe e i disegni realizzati dallo stesso Vollmann.

Gran parte del romanzo è dedicata alla ricostruzione della famosa spedizione artica compiuta dall’esploratore inglese John Franklin tra il 1845 e il 1848 alla ricerca del passaggio a Nordovest. Nel tentativo di riprodurre i processi mentali che avvengono durante i sogni, Vollmann interseca il racconto dell’esplorazione con episodi storici successivi (come il triste resoconto del trasferimento al Circolo polare artico imposto agli Inuit dal governo canadese negli anni Cinquanta), eventi mitici (le leggende collegate al culto della dea Sedna) e mirabili descrizioni degli abbaglianti paesaggi artici.

Ogni storia è filtrata dalla coscienza di Capitan Sottozero, ennesimo alter-ego dell’autore; i suoi viaggi in Canada e in Groenlandia hanno origini autobiografiche e costituiscono forse la parte più emozionante del libro. Per descrivere il più fedelmente possibile l’esperienza di Franklin e del suo equipaggio, infatti, nel 1991 Vollmann decise di trascorrere dodici giorni da solo nella stazione meteo abbandonata di Isachsen, vicino al Polo Nord magnetico, con temperature di -40°, rischiando di morire assiderato a causa dell’equipaggiamento rivelatosi inadatto; l’episodio è raccontato nello straordinario capitolo intitolato «Il debito di Sottozero».

Nel corso della narrazione, Sottozero si innamora di Reepah, una giovane Inuit che è anche il personaggio più complesso e contraddittorio del romanzo – amalgama indimenticabile di ingenuità, depressione, curiosità, introspezione, dipendenza, religiosità e tenerezza. Anche la storia d’amore tra i due, che in un certo senso costituisce il nucleo emotivo del romanzo, entra in risonanza con la mitologia Inuit e con incontri analoghi avvenuti in passato tra esploratori inglesi e donne eschimesi, rivelandosi foriera di sventure.

La figura dell’invasore
In ultima analisi, la pluralità di contenuti affrontati, personaggi e punti di vista del romanzo ci restituisce un affresco storico di inusitata lucidità e compattezza narrativa. Il capitano Franklin e Capitan Sottozero si sovrappongono nei Fucili dando vita a una figura archetipica, quella del colonizzatore che, anche quando è animato (forse) da buone intenzioni, invade, corrompe, sfrutta e infine distrugge la cultura nativa. Vollmann non esita a includere il proprio alter-ego nel novero degli invasori, pur restando consapevole che la storia non ammette comode distinzioni manichee: «I fucili in sé non erano un male; né erano malvagi gli uomini che li avevano introdotti», riflette in una delle note finali; «Che seccatura», conclude amaro, «che non ci siano i cattivi in questa tragedia!»