«C’erano una volta un giornalista e un fotografo che partirono per l’Asia per andare a puttane. Il viaggio riuscirono a farselo pagare da una rivista di New York»: si apre così il capitolo centrale e più corposo di Storie della farfalla (traduzione di Cristiana Mennella, minimum fax, pp. 310, € 18,00) il controverso romanzo di William T. Vollmann uscito per la prima volta in Italia nell’ormai lontano 1999 col titolo Storie di farfalle. Ora, più fedele all’originale, il titolo sposta l’accento sullo storyteller: nel romanzo, infatti, il protagonista semi-autobiografico è identificato come «il bambino farfalla», per poi diventare «il ragazzo che voleva fare il giornalista», e dunque «il giornalista» e infine «il marito».
Oltre a indicare la professione più antica del mondo, la farfalla – simbolo di indipendenza, evoluzione e rinascita – diventa metafora di un percorso esistenziale, finanche di una ricerca intellettuale. Il «bambino farfalla», emarginato dai compagni di scuola perché bravo a scrivere ma soprattutto perché «gli piacevano le femminucce», sviluppa da adulto una passione morbosa per le prostitute, alle quali si accosta con empatia e umanità, innamorandosi di ogni taxi girl con cui va a letto. La sua promiscuità si rivela un impulso irresistibile, ogni incontro sessuale rappresenta per lui la tappa obbligata di un’iniziazione: «Sembrava che niente potesse farlo felice. Era un dilettante della vita. Qualunque strada scegliesse, l’abbandonava, perché aveva nostalgia delle altre». Intenzionato a porsi sullo stesso piano delle prostitute che acquista in Thailandia a suon di dollari, le rassicura dichiarando: «Farfalla tu, farfalla io, nessun problema».

Un Bildungsroman tragicomico
Sebbene il prologo chiarisca subito che il romanzo è centrato su «quell’onestissima forma d’amore chiamata prostituzione», dire che Storie della farfalla è un libro sulle prostitute sarebbe come ridurre Moby-Dick a un libro sulle balene. Il romanzo di Vollmann fa idealmente parte di una trilogia (con Puttane per Gloria e The Royal Family) basata su altrettante storie d’amore disfunzionali tra un individuo solitario, emarginato e infelice, e una prostituta apparentemente irraggiungibile.
La quest del giornalista in Storie della farfalla si configura come un Bildungsroman tragicomico: un antieroe confuso e contraddittorio, alla costante ricerca di sesso a pagamento negli alberghi e nei bar più infimi di Bangkok, continua a interrogarsi sul significato di parole come «fedeltà» e «amore», autoconvincendosi che «non c’era niente di male a essere promiscuo se amavi tutte; potevi essere fedele a centinaia di mogli». Ma un giorno il protagonista si innamora perdutamente di Vanna, una prostituta cambogiana, restandone talmente ossessionato, anche dopo il ritorno in America, da decidere di chiedere il divorzio alla moglie e andare di nuovo in Cambogia a cercarla. In un ribaltamento del romance cavalleresco tradizionale, il giornalista innamorato dell’idea di amore persegue una parabola suicida, finendo preda di impulsi sessuali autodistruttivi.

Vollmann confonde volutamente fiction e autobiografia, modellando la figura del protagonista sulle sue esperienze di reporter e basando episodi del romanzo sui viaggi in Thailandia e in Cambogia insieme al fotografo Ken Miller (quando il capitolo centrale del libro uscì in anteprima sulla rivista «Esquire», molti lo considerarono non-fiction; un’amica di Vollmann gli scrisse in preda al panico temendo che lo scrittore avesse contratto l’Aids). Ciò nonostante, la prosa lirica e le scene visionarie – indimenticabile la fuga degli schiavi cambogiani attraverso una giungla infestata di mine e serpenti che diventa metafora della selva oscura in cui rimane invischiato il protagonista – contribuiscono allo straniamento del lettore e rendono Storie della farfalla un’opera molto lontana dal «gonzo journalism» alla Hunter Thompson.
Il contesto storico del sudest asiatico è ricostruito in presa diretta nei minimi dettagli, dalle feroci torture organizzate dai Khmer Rossi alla condizione di degrado e povertà in cui vivono gli abitanti di Bangkok e di Phnom Penh; lo spettro delle malattie veneree, le discriminazioni e le violenze sistematiche ai danni delle schiave sessuali pesano come macigni sulla narrazione, che però riesce a mantenere un tono (auto) ironico.

Puttana scrittura
Oltre alla vicenda romanzesca, Vollmann regala al lettore una profonda riflessione sui meccanismi di sfruttamento che sono alla base della scrittura professionale. In un’intervista, così collega esplicitamente la passione per le prostitute al suo apprendistato poetico: «Quando ho cominciato a scrivere sapevo che i miei personaggi femminili erano molto, molto deboli e che non erano convincenti, quindi ho pensato che il modo migliore per ovviare a ciò fosse avere rapporti con un sacco di donne diverse; ovvero rimorchiare prostitute». Dichiarazioni provocatorie e apparentemente naïves, che pongono in realtà un interrogativo fondamentale non solo in Storie della farfalla ma anche in molti altri luoghi della narrativa di Vollmann: quand’è che lo scrittore da reporter o romanziere diventa sciacallo?

In una scena del libro il giornalista assiste a una performance di «Ned», autore famoso osannato dal pubblico che sale sul palco e comincia a «cantare, sbuffare, scorreggiare, mentre tutti ridevano a crepapelle»; a chi gli consiglia di imparare a scrivere da Ned, il giornalista ribatte: «Seguire il suo esempio equivaleva a calarsi le mutande in pubblico». L’autore è ben consapevole del rischio di esercitare, in quanto scrittore, un tipo di prostituzione ancora più meschino, quella intellettuale. Ma l’onestà è una delle caratteristiche tipiche della scrittura di Vollmann, che è anche autoironico quando confessa con candore, a proposito delle prostitute: «Mi sono costate soldi e mi hanno fatto guadagnare soldi».