L’atroce fine del reporter James Foley resterà negli occhi dell’opinione pubblica statunitense, la stessa che preme per il disimpegno di Washington dal fronte mediorientale. Il presidente Obama lo sa: inviare anche un solo marine nella bolgia irachena danneggerebbe definitivamente la sua immagine, seppur quella bolgia sia figlia degli errori della precedente amministrazione e dell’attuale.

Nessun marine, solo bombe dai droni senza pilota. Ieri i bombardamenti Usa sulle postazioni jihadiste a nord sono ripresi, nonostante l’Isil abbia apertamente minacciato di uccidere anche il secondo giornalista ostaggio, Steven Sotloff. Missili sono stati lanciati anche dalla marina, a protezione di peshmerga e esercito iracheno impegnati nel tentativo di riprendere Mosul. Quattordici i raid compiuti dai droni Usa, mentre fonti del Pentagono hanno parlato del possibile invio di altri 300 militari Usa in Iraq, da dispiegare dentro e intorno Baghdad.

Accanto alle bombe, dal cielo iracheno sono piovuti volantini su Mosul: un messaggio in arabo del Ministero della Difesa ai residenti perché si sollevino contro le milizie di al Baghdadi e sostengano la controffensiva governativa. I volantini potrebbe anticipare un’ampia operazione di ripresa della città da giugno roccaforte dell’Isil, quasi svuotata dei propri residenti fuggiti verso il Kurdistan.

C’è da capire se Mosul, città sunnita come il resto della provincia di Ninawa, abbia intenzione di prendere le parti di quel governo che negli ultimi otto anni ha lavorato per estromettere la comunità sunnita dalla gestione economica e politica del paese. Nei due mesi appena trascorsi, sono stati numerosi i sunniti che hanno deciso di sostenere l’avanzata dell’Isis, nella speranza di sfruttarla come piede di porco per far cadere l’esecutivo a maggioranza sciita. Fondamentale la partecipazione degli ex ufficiali baathisti, tuttora fedeli a Saddam, la cui conoscenza del territorio ha garantito la prepotente avanzata qaedista.

Una spaccatura visibile del già fragile melting pot iracheno, a cui i governi occidentali partecipano armando i peshmerga curdi. Gli ultimi due mesi sono stati forieri di speranze per la regione autonoma del Kurdistan e per i curdi di Siria e Turchia, che vedono nella nuova legittimazione militare dei fratelli iracheni lo spiraglio per una reale indipendenza. L’autonomia che Irbil cerca di ottenere da tempo, sganciandosi da Baghdad soprattutto nel settore energetico, è oggi un’ufficiosa realtà.

Secondo fonti turche, dalla fine di agosto dall’oleodotto indipendente del Kurdistan iracheno transiteranno 200-220mila barili al giorno, il doppio della produzione del passato. Il tutto grazie ai lavori di miglioramento del condotto, che arriva in Turchia, a cui ha messo mano la compagnia turco-inglese Genel Energy, a riprova dei consistenti interessi europei nell’area.

L’iniziativa curda ha ovviamente fatto infuriare Baghdad, impegnato a impedire le vendite indipendenti di greggio all’estero, cominciate a maggio senza il beneplacito del potere centrale. Ad oggi non è facile per il Kurdistan trovare compratori che riconoscano la regione autonoma come venditore legittimo ma il sostegno internazionale ai peshmerga potrebbe essere la chiave di volta. Tanto da spingere l’ex premier Maliki ad “avvertire” il suo successore, al Abadi, a non accettare precondizioni poste dai curdi per la formazione del nuovo governo di unità.

La preoccupazione cresce anche in Iran, consapevole che un’eventuale maggiore indipendenza curda spaccherebbe l’unità dell’Iraq e incrementerebbe l’influenza Usa a scapito di quella iraniana. Perciò l’Iran ha sempre premuto per un rafforzamento di Baghdad, anche attraverso la strana alleanza con gli Usa cercata nelle prime settimane di avanzata dell’Isil: «Per l’Iran niente è potenzialmente minaccioso come la prospettiva di un Kurdistan indipendente perché ridurrebbe la sua influenza sull’Iraq – spiega l’analista iraniano Maham Abedin – Inoltre, un’entità indipendente curda diventerebbe base permanente per l’influenza statunitense e israeliana, nel cortile di casa iraniano. Infine, rafforzerebbe gli irredentisti curdi in Iran. Per questo Teheran lavora per contenere le forze centrifughe irachene, intervenendo direttamente nel conflitto».

E cercando di salvare il governo sciita, costringendolo ad aprirsi alle comunità curde e sunnite: l’Iran sa che solo un esecutivo di unità nazionale impedirebbe la spartizione definitiva dell’Iraq, suo Stato satellite.