“Le forze che si alimentano del mercato della guerra e del debito- capestro per i popoli, vogliono chiudere la porta al cambiamento in America latina”. Così dice al manifesto l’economista ecuadoriano Pedro Páez Pérez. Un’analisi di peso, la sua, non solo per il ruolo centrale che ha ricoperto durante i governi di Rafael Correa, ma anche per essere stato, in precedenza, a lungo consulente della Banca mondiale. Di impostazione marxista, Paez è uno dei principali artefici della nuova architettura finanziaria che ha prodotto le linee economiche del Banco del Sur e dell’Alba, l’alleanza bolivariana per i popoli delle Americhe, fondata da Cuba e Venezuela. Viceministro e poi ministro dell’Economia a partire dal 2005, ha dato impulso alla riforma della Legge sugli idrocarburi, che ha consentito allo stato di aumentare la propria partecipazione alla rendita petrolifera ottenuta dalle grandi multinazionali. Ora dirige la Superintendencia di Control de Poder de Mercado.

Qual è il suo nuovo compito?
Come parte del processo costituente che continua nel nostro paese con la revolucion ciudadana, stiamo cercando di creare una cultura della responsabilità nei cittadini per aumentare il loro potere di controllo sui meccanismi del mercato e sulla concentrazione monopolistica. Uscendo da una logica statalista o paternalista, vogliamo evitare che il consumatore premi le imprese che si sono arricchite violando i diritti del lavoro o quelli della natura. La nostra è una piccola economia, ma in base allo studio su 400 settori che concorrono al Prodotto interno lordo, risultano pericolosi livelli di concentrazione monopolistica in tutti i campi.

E non è responsabilità dello stato, che si richiama al socialismo, contenere la natura vorace del capitalismo?
Sì, in parte è così, abbiamo delle normative interne, ma il potere dei monopoli è sempre stato tale da disattivarle. Una legge simile a quella che abbiamo ora era stata votata da un precedente parlamento in un governo di destra, ma il presidente ha dovuto abolirla perché quella economia sarebbe saltata. Oggi più che mai occorre costruire un contrappeso, liberarsi dall’alienazione, spiegare che i mercati sono costruzioni storiche degli uomini, non entità naturali o sovrannaturali. Ma, al di là delle grandi questioni di prospettiva, occorre ripristinare regole del gioco minime anche nel mercato. A volte, invece, tendiamo a pensare che tutto possa risolversi sul terreno strettamento politico, dei partiti, delle elezioni. Al contrario, occorre stimolare la partecipazione della società civile: intesa non alla maniera delle Ong e della Banca mondiale, ma nel senso di un forte contrappeso politico. Tutti abbiamo interesse a capire come evolvono gli interessi delle multinazionali in questa crisi strutturale del capitalismo in cui assistiamo non solo alla transnazionalizzazione della finanza, ma anche alla finanziarizzazione delle multinazionali. Dove vanno i soldi che la Banca centrale europea sta dando alle banche e che non ci sono mai per i progetti sociali? Come si è visto a partire dalla crisi finanziaria del 2008, le banche europee si sono servite del denaro per speculare sugli alimenti o per bruciarli come agrocombustibili. Il capitale finanziario sta distruggendo le basi stesse della proprietà privata, non quelle del socialismo. La questione è evidente osservando i nuovi tipi di debito che sono i derivati finanziari, completamente svincolati dalla dinamica e dalla proiezione dell’economia reale. Il capitale finanziario monopolistico persegue una speculazione insostenibile e la schiavitù eterna di intere popolazioni. Purtroppo, però, è da trent’anni che la sinistra ha abbandonato questi temi di studio. Invece non sono argomenti da lasciare ai tecnocrati come me.

Secondo alcuni analisti, l’America latina progressista non ha più il vento in poppa.
Nel contesto di crisi mondiale, l’America latina è un grosso sasso nella scarpa per le élite che hanno basato la loro forza nel mercato della guerra e nella schiavitù del debito per i popoli e che sono interessate a chiudere la porta alla speranza aperta nel continente, a riportare indietro l’orologio della storia. Bisogna prendere atto che è in marcia un processo di destabilizzazione, variamente modulato a seconda dei vari paesi, ma con modalità simili: dal Venezuela al Brasile, dall’Argentina all’Ecuador. Le forze della reazione approfittano di tutte le opportunità, coniugando vecchie tattiche come quelle usate ai tempi di Allende, con i nuovi moduli delle rivoluzioni colorate e del manuale di Gene Sharp. Nascondono i prodotti, pilotano aggressioni finanziarie ed economiche, provocano carestie artificiali e terremoti nel mercato, ma si servono anche delle reti sociali e di nobili bandiere utilizzando i giovani. Poi entra in campo la comunità internazionale, le sanzioni, le accuse di corruzione o per narcotraffico: come se il 97% dell’oppio mondiale non fosse prodotto nell’Afghanistan occupato da Usa e Gran Bretagna. Come se la Nato non avesse prodotto quei mostri che ora dice di voler combattere. In molti casi, vengono usate rivendicazioni legittime e problemi reali. Sappiamo bene che non possiamo risolvere storture storiche e complesse dall’oggi al domani. Non abbiamo neanche avuto una borghesia nazionale capace di perseguire lo sviluppo di un mercato interno secondo i suoi criteri. Dipendiamo dalle esportazioni e dal dollaro. Siamo stati in balìa di una borghesia compradora e parassitaria. Abbiamo dovuto far fronte al disastro di 40 anni di neoliberismo, alla bancarotta materiale e morale delle istituzioni, all’impoverimento spirituale dei soggetti storici portatori di cambiamento. Quella della destabilizzazione è una gigantesca fonte di guadagno sulla base dei derivati finanziari, nel segno del colossale e crescente processo di monopolizzazione. Il nuovo capitale finanziario non ha alcun interesse a favorire la crescita e a investire nella produzione ma a perpetrare e gonfiare la sua rendita virtuale e il ricatto sui nostri governi. Per questo, chiediamo a tutti i sinceri democratici che guardano al nostro continente di non negare la realtà: un ritorno indietro significherebbe l’azzeramento di tutte le conquiste sociali, che non si possono ottenere senza un governo delle risorse e senza tenere il timone politico orientato in direzione della giustizia sociale e della sovranità nazionale.

Il modello dell’Alba suscita interesse anche in Europa. A che punto è il progetto di una nuova architettura finanziaria e di una moneta alternativa al dollaro?
Potremmo andare più in fretta se non fossimo obbligati a parare i colpi di cui parlavo prima. Con l’Alba, il Banco del Sur e il Sistema unitario di compensazione regionale, il Sucre, che è una moneta virtuale alternativa al dollaro, abbiamo messo in campo transazioni dirette e dimostrato che è possibile evitare il monopolio del dollaro e le relative commissioni. Abbiamo un sistema comune per quel che riguarda i servizi, la difesa, la ricerca di sovranità alimentare. Abbiamo cominciato a costruire una nuova correlazione di forze che ha fatto scuola nei Brics. Dopo la crisi in Ucraina, anche loro hanno preso esempio dal Banco del Sur per costruire un sistema di prestiti alternativo alla logica ricattatoria del Fondo monetario internazionale