«Vogliamo una commissione d’inchiesta indipendente sull’uccisione di Nizar Banat e non una imbottita di gente vicina al governo e creata all’unico scopo di far condannare qualche pesce piccolo, un poliziotto qualsiasi, tanto per salvare le apparenze. C’è un video che mostra Nizar ancora vivo mentre viene portato via. Vogliamo capire quando e perché è stato ucciso». Reem, 22 anni, rispondendo alle nostre domande ieri mattina in un caffè del centro storico di Ramallah, ha anticipato le richieste avanzate qualche ora dopo a Hebron dalla famiglia dell’attivista palestinese ammazzato di botte la scorsa settimana da agenti dei servizi di sicurezza dell’Anp per aver rivolto «frasi offensive» al presidente Abu Mazen e al premier Mohammed Shttayeh. «Ma è solo il primo punto» aggiunge Reem, accompagnata da Jaber, un suo amico 24enne, «Il cambiamento deve essere radicale, non ci bastano le dimissioni di Abu Mazen e ancora meno quelle del ministro Nasri Abu Jaish (ministro del lavoro), devono farsi da parte tutti quelli intorno al presidente. Chiediamo la fine della corruzione e dei privilegi per persone che fanno solo i loro interessi e non quelli del popolo palestinese che lotta per liberarsi dell’occupazione israeliana».

Reem e Jaber sono i nomi che i due giovani palestinesi ci hanno chiesto di usare per nascondere le loro identità. Hanno paura, temono le ritorsioni dell’intelligence dell’Anp. Nei giorni scorsi erano in strada a chiedere giustizia per Nizar e come tanti dimostranti hanno subito la brutalità delle forze di sicurezza decise a mettere fine alle proteste. «Per la prima volta provo odio per alcuni palestinesi» ci dice Jaber «pensavo fossimo tutti fratelli, uniti, ma questa gente (gli agenti dell’intelligence in abiti civili, ndr) sono delle belve addestrate e pagate per picchiare, ferire e uccidere. Non sono più palestinesi, sono diventati un’altra cosa». «Addestrati anche a molestare» aggiunge Reem ricordando gli abusi denunciati da diverse donne fermate o arrestate dalla polizia. Reem e Jaber incarnano il manifestante tipico visto nei giorni scorsi nelle strade di Ramallah e altre città: non affiliato a partiti e poco organizzato. «Non c’è nessuno dietro di noi – afferma Reem – siamo gente qualsiasi, laici e religiosi, progressisti e tradizionalisti. Tutti desideriamo le stesse cose: la fine dell’occupazione israeliana ma anche democrazia interna, verità per Nizar e le dimissioni di Abu Mazen e la fine dell’occupazione».

L’assenza di una direzione politica, lo pensano in molti, potrebbe rivelarsi presto il tallone di Achille della protesta contro l’Anp e il suo presidente. Lo sciopero generale annunciato per ieri non c’è stato a causa anche di una comunicazione che privilegia Instagram e Twitter ai quali accede sola una porzione minima della vecchia generazione palestinese. «È vero, non siamo organizzati, ma al momento va bene così, perché ognuna delle persone scese in strada sa per cosa lottare» ci spiega Nader Abdelhadi, 26 anni, che mostra grossi ematomi sul braccio sinistro colpito dalle manganellate della polizia venerdì sera. «La spontaneità è la nostra forza e, allo stesso tempo, conferma che nessuna forza politica è dietro di noi». L’Anp accusa il movimento islamico Hamas e la corrente dei Riformisti Democratici di Mohammed Dahlan (un avversario di Abu Mazen) di soffiare sul fuoco delle proteste. Che il movimento islamico abbia interesse a mettere in difficoltà l’Anp è fin troppo evidente ma, sottolinea Reem, «ciò non può rappresentare un alibi per negare il diritto di critica e di opinione e per far uso della violenza contro gli oppositori».

Critiche che giungono anche da militanti e simpatizzanti di Fatah. «Il nostro movimento è nato per liberare i palestinesi dall’occupazione israeliana e non per diventare parte di forze di polizia che picchiano e puniscono la nostra gente. Penso che Abu Mazen debba dimettersi e che si debbano svolgere elezioni legislative e presidenziali», ci diceva uno di loro, che ha chiesto l’anonimato. «La sfida – ha aggiunto – è chiudere l’era di Abu Mazen senza che ciò porti al caos e a divisioni interne. Il presidente da tempo vorrebbe passare la mano ma pressioni interne ed interessi internazionali glielo impediscono».