Lo scorso venerdì il ministero della Sanità iracheno avvertiva: l’Iraq potrebbe “perdere il controllo” dell’epidemia da Covid-19 nei prossimi giorni. L’allarme seguiva ai dati del 4 settembre, 5.036 nuovi casi di infezione, record giornaliero per il paese. Da cui la richiesta di intervenire con un maggior rispetto delle misure di contenimento, ridurre le occasioni di assembramento, indossare le mascherine, rispettare il distanziamento fisico.

Ma la situazione non migliora: ieri i nuovi contagi ammontavano a 4.314, per un totale di quasi 265mila malati e 7.589 decessi dall’inizio dell’epidemia. Sicuramente a incidere sono anche i pellegrinaggi religiosi: appena due settimane fa gli iracheni sciiti hanno celebrato l’Ashura (il martirio dell’imam Hussein nel 680 d.C, considerato la pietra fondante dello sciismo) con eventi tradizionalmente partecipatissimi nella città santa di Karbala.

Per evitare il caos gli ayatollah Khamenei e al-Sistani avevano vietato le celebrazioni pubbliche, chiedendo ai fedeli di provvedere dentro le mura di casa, ma in migliaia hanno comunque partecipato alla marcia verso i mausolei di Karbala, tanti arrivati di nascosto da altre province irachene a cui era stato vietato di entrare in città. Così il governo di Baghdad si è trovato costretto a vietare gli arrivi dei fedeli iraniani per il pellegrinaggio dell’Arbaeen (i 40 giorni dopo l’Ashura), previsto per l’8 ottobre prossimo.

Nell’aumento dei casi sicuramente incide anche la natura dell’economia irachena, per lo più informale, che richiede alla maggior parte delle classi basse di lavorare comunque e spesso senza protezioni, troppo costose per chi vive con sei dollari al giorno. Ma a incidere è anche la pressoché totale impreparazione del sistema sanitario iracheno, contro cui già all’inizio dell’estate i medici avevano avvertito.

Oggi, con alle spalle 41 dottori morti di Covid-19 e oltre 1.500 infettati e personale medico costretto a turni massacranti con pochissime protezioni personali, si protesta di nuovo: domenica tantissimi medici e laureati in medicina, provenienti da diverse città irachene, si sono ritrovati davanti alla sede del ministero della Salute a Baghdad, vestiti con il camice bianco e con la mascherina sul volto, per chiedere lavoro per i disoccupati ed equipaggiamento per gli ospedali. O, annunciano, sarà sciopero entro la fine della settimana, un incubo per ospedali che non riescono già ora a far fronte all’epidemia.

A monte sta la promessa mai mantenuta del governo, l’assunzione di 31mila neo laureati come suggerito dalla commissione ministeriale creata ad hoc dall’esecutivo. Suggerimento bocciato dal ministero delle Finanze che ha riportato tutti sulla terra: non ci sono soldi per pagare gli stipendi. La protesta continua comunque, costola della più ampia mobilitazione che interessa l’Iraq dal primo ottobre 2019 e che chiede servizi e lavoro, fine del sistema settario e maggiore eguaglianza sociale.

Il sistema sanitario, della diseguaglianza, è uno dei primi paradigmi: fiore all’occhiello della regione negli anni ‘70 e ‘80, è stato travolto dall’embargo Usa, dalle due guerre del Golfo e dall’invasione anglo-statunitense, per subire il colpo di grazia con il proliferare di una corruzione immane che ha ingurgitato i miliardi di dollari previsti per la ricostruzione.