Se confermato, il trasferimento di tecnologia nucleare americana a Riad violerà la legge che vieta al presidente degli Stati uniti di prendere decisioni simili senza l’avallo del Congresso: i rapporti tra la Casa bianca e il potere legislativo si faranno più tesi, mentre per il Medio Oriente le conseguenze saranno di certo disastrose», commenta il politologo M.R. Djalili, professore emerito del Graduate Institute of International Studies di Ginevra.

Se i sauditi rincorrono l’atomica, è perché i loro rivali di Teheran vantano un programma nucleare a cui avevano dato avvio gli americani che, in piena guerra fredda, temevano che a offrirsi come consulenti fossero i sovietici. Nel 1957 era stato lo scià a firmare con Washington un accordo di cooperazione nucleare «al servizio della pace». A occuparsene era Akbar Etemad, un fisico nucleare laureato al Politecnico di Losanna e specializzato in Francia.

In un’intervista di qualche anno fa a Parigi, dove vive in esilio, Etemad mi spiegava come «ai tempi della monarchia l’Iran non avesse bisogno della bomba atomica perché le forze armate erano in grado di difendere le frontiere e gli altri paesi della regione non avevano ancora il nucleare».

Nel 1970 Teheran aderiva al Trattato di non proliferazione e, quattro anni dopo, l’Iran e l’Egitto lanciarono un appello per fare del Medio Oriente una zona priva di armi di distruzioni di massa. Nel 1974 lo scià si rese conto della necessità di fonti di energia alternative: il petrolio non doveva essere sprecato per produrre elettricità.

Molti paesi investivano nel nucleare e, con l’aumento del prezzo del barile, all’Iran non mancava la liquidità: in quattro anni lo scià spese otto miliardi di dollari per ottenere dalle centrali nucleari, nel giro di vent’anni, un quarto dell’elettricità necessaria. Ne furono progettate una ventina: quattro sarebbero state costruite con i tedeschi e due con i francesi. Secondo Etemad, Washington «non era stata coinvolta, ma pretendeva di avere l’ultima parola sulle operazioni di arricchimento del combustibile, trascurando il parere contrario dello scià e il fatto che ciò avrebbe minacciato la sovranità dell’Iran».

L’Iran acquisì comunque partecipazioni all’estero per l’approvvigionamento e l’arricchimento dell’uranio e ancora oggi detiene il 10 per cento delle azioni della francese Eurodif, a cui commissionò la costruzione di una fabbrica per l’arricchimento dal valore di un miliardo di dollari. Teheran non può però disporne a causa del veto dell’Eliseo.

Di certo, il voler fare a meno degli americani sul nucleare aveva fatto capire a Washington che lo scià non era una semplice pedina. E può aver contribuito alla decisione di non aiutarlo nel difficile frangente della Rivoluzione. Ricordando l’epoca in cui dirigeva il programma nucleare, Etemad osservava che «con India, Pakistan e Israele dotati dell’atomica, lo scià avrebbe sicuramente dato ordine di perseguire il nucleare a scopi militari».

Alla luce di queste osservazioni, viene da pensare che a spingere l’Arabia saudita e gli altri paesi della regione non è altro che quella che René Girard definiva rivalità mimetica: «La radice dei conflitti è nella concorrenza tra gli esseri, i paesi, le culture. La concorrenza, ossia il desiderio di imitare l’altro per ottenere la stessa cosa che ha lui, all’occorrenza anche tramite la violenza». Se Riad reclama il nucleare, è per dimostrare ai propri sudditi di non essere da meno rispetto a Teheran, il rivale di sempre: gli iraniani vantano registi che vincono premi, i sauditi fino a poco tempo fa non avevano nemmeno le sale cinematografiche; le iraniane possono guidare le automobili e ora questa prerogativa spetta pure alle saudite, anche se poi le attiviste sono in carcere.

Da parte sua, Trump pare essere mosso dal solo desiderio di far soldi. Poco importa se le armi vendute all’Arabia saudita e agli Emirati vengono da quattro anni scaricate sullo Yemen, dove hanno causato la morte di 50mila persone e messo allo stremo 24 milioni di abitanti. E poco importa se il nucleare a un uomo violento come il principe ereditario saudita MbS rischia di fare danni ben al di là del Golfo persico.