«La mostra di Pesaro vuole essere una rassegna di opere prime», ammonisce Lino Micciché da un filmato d’epoca del ’65 e la materia degli esordi deve costituire «un valore culturale per un futuro più certo». Oggi che questo futuro è arrivato, la mostra sotto la guida di Giovanni Spagnoletti continua ad esplorare territori inesplorati e a creare momenti di confronto e di analisi, quest’anno con una rassegna di nuovo cinema americano indipendente, un programma realizzato da Jon Gartenberg.

Le caratteristiche sono necessariamente diverse dalla rassegna del New American Cinema che si tenne qui nel ’67: fiction, documentari, film di montaggio con materiali diversi, autori che operano soprattutto a New York e che si tengono lontani da Hollywood e non hanno neanche troppi rapporti con il Sundance. Riuniti in una tavola rotonda gli artisti contemporanei presenti a Pesaro hanno risposto tutti con una certa sorpresa alla domanda che ha loro posto Bruno Torri (con Lino Micciché fondatore del festival nel ’65) se anche loro, come gli artisti del New American Cinema che avevano grandi capacità organizzative sentissero il bisogno di organizzarsi in cooperative, in distribuzione indipendente. La risposta è per lo più negativa, soprattutto per motivi economici. Perfino raggrupparsi in riviste è diventato complicato, come dice Abigail Child, anche poetessa e sceneggiatrice, un nucleo di comunità che si era formato si è poi disperso perché l’elemento economico è entrato in gioco e ognuno ha dovuto trovare lavori alternativi.

John Canemaker, animatore e studioso del genere e che ha fatto anche l’attore per dieci anni, spiega che che un certo sostegno emotivo derivava dal gruppo degli animatori, mentre oggi tutto sta cambiando, tanto che si sta verificando anche un esodo da New York verso il Midwest, Kansas City e «Baltimora City», come aggiunge Matthew Porterfield, (autore di Hamilton). Unico ad aver ricevuto appoggio e sostegno da una comunità, quella afroamericana, è stato Thomas Allen Harris, autore di Through a lens darkly: Black photografers and the emergence of people: «Quando sono nato come artista – dice, avevo un gruppo di riferimento. Negli Usa è difficile unirsi su delle idee. L’aspetto economico, gli spazi, tutto va contro questa tendenza. Gli unici veri momenti di aggregazione sono stati i festival lesbo e gay».

Harris ha cominciato come fotografo ed ha intrapreso il suo lavoro sulla storia della fotografia afroamericana dopo essere stato in Europa ed avere studiato cinema in America: «Volevo girare un film che fosse la testimonianza di una comunità e al contempo mi consentisse di parlare della mia relazione con questa comunità, delle tensioni insite nell’interno di una famiglia e della famiglia umana in generale». L’influenza più decisiva, dice, pur sottolineando l’importanza dello studio sulle opere di Chris Marker o di Pasolini, l’ha avuta dai collettivi non di afroamericani ma dai registi di origine africana che venivano dall’Inghilterra, come John Akhomprah: «Quando sono arrivati loro ho potuto far sentire la mia voce».

In tutti i protagonisti delal giovane scena indipendente si sente l’esigenza di rendere «visibile l’invisibile» e lo si può fare utilizzando pellicole deteriorate («in modo meraviglioso») come ha fatto Bill Morrison grande fruitore di materiale di repertorio, pittore prima che cineasta. Lui si definisce «una normale persona del Midwest», ma in The Great Flood è riuscito a far riemergere la grande alluvione del Mississippi del ’27 con filmati mai visti in passato da nessuno.

Abigail Child, autrice dell’intensa opera dal titolo The suburban Trilogy, tenta poi un’altra strada aprendo le portedell’immaginazione femminile. Il lungometraggio è un’esplorazione nelle vite delle adolescenti del dopoguerra: «Mi sono resa conto che come donna non avevo veri e propri modelli, ero in una posizione difficile, c’erano sempre gli uomini ad aver scoperto il mondo. Mi sentivo isolata e negli anni ’90 la situazione non era molto cambiata. Noi veniamo dopo gli strutturalisti degli anni ’70 che avevano preso i contenuti e li avevano resi più minimalisti. Mi sono detta: utilizziamo l’elemento fisico, ma mettiamoci dentro il mondo vero, così ho cominciato a fare documentari sulle comunità di sinistra. Poi ho pensato che se vuoi cambiare il mondo devi cambiare la forma. Per questo ho cominciato ricordando a me stessa il fatto di essere una donna e che la vita non procede in modo lineare, ma possiede molte incertezze. È la forma hollywoodiana ad esprimersi in modo lineare e senza incertezze, ma esclude in questo modo tante e possibili esperienze diverse».