Una storica brillante, sensibile e piena di talento nel 1968 a Gorizia e nel 1977 ad Arezzo registra le voci di donne e di uomini ancora reclusi nei rispettivi manicomi cittadini. Era Anna Maria Bruzzone, classe 1925, docente negli istituti superiori di Torino e ricercatrice non accademica. Ci chiamavano matti, quell’indagine, originale e irriverente, pubblicata in una memorabile edizione Einaudi nel 1979, viene ora riproposta dal Saggiatore con una attenta e competente curatela di Silvia Calamai e Marica Setaro (pp. 416, euro 29). Non solo. Adesso le due studiose dispongono di nuovi e importantissimi materiali.

IL TUTTO HA INIZIO da una domanda semplice ma cruciale: se Bruzzone nel 1977 aveva raccolto le voci dei degenti di Arezzo con un mangianastri, dove saranno mai finite quelle cassette? Grazie alla generosa mediazione della nipote, Paola Chiama, le due studiose – con Lucilla Gigli (archivista e bibliotecaria nella sede aretina dell’università di Siena) – hanno quindi dato vita a un nuovo fondo archivistico composto da dattiloscritti, quaderni con le trascrizioni, interviste, diari e, soprattutto, dalle registrazioni delle voci dei matti. Parole forti, che squarciano; ora argomentano, ora si interrogano, spesso sono urla contro le ingiustizie. Flebile e potente è al tempo stesso il grido in cerca di libertà.
Immergersi nella lettura di queste «voci dell’interiorità», così le chiamerei, è un viaggio nella vivisezione dell’umano, non certo del patologico. Dispute e conflitti acerrimi, ostilità tra familiari, con i datori di lavoro, contrasti all’interno delle comunità, renitenti alla leva, comportamenti irrispettosi della morale corrente: sempre questi i contesti di provenienza per chi ha vissuto vite recluse.

LA ROTTURA realizzata da Basaglia – che è stata al tempo stesso epistemologica, storica e politica – è qui restituita in quella fase intermedia in cui si avvia la trasformazione del manicomio in comunità terapeutica e, soprattutto, in cui si opera affinché i ricoverati possano cominciare a pensarsi come soggetti liberi. Non si può, tuttavia, restituire né imporre la libertà. «La libertà che veniva data al malato dall’esterno, non era ancora il risultato di una sua conquista», scriveva Basaglia nel 1965 rivelando una evidente traccia illuminista. E anche se l’internato aveva contribuito ad abbattere il recinto dell’istituzione, continuava a restare chiuso in una barriera che egli stesso si imponeva.
L’indagine di Bruzzone non squarcia la tela delle soggettività offese, ma illumina il travaglio del risveglio per la loro liberazione. Le traiettorie percorse da queste individualità sono, ovviamente, innumerevoli e contraddittorie, ma si addensano su temi importanti: ripensare il proprio sé, elaborare la memoria rintracciando la propria esistenza prima della cesura manicomiale, testimoniare la violenza dell’internamento.

PARLAVA POCO Michela P. – più volte ricoverata a Gorizia negli anni Sessanta – anzi è proprio quello il suo problema: parlava poco e aveva poca vita; non le sembrava di avere disturbi nervosi, le pareva piuttosto di essere stata sottovalutata in manicomio come già dai suoi genitori, che dicevano che lei disubbidiva sempre; Michela pensava, invece, che avesse troppo ubbidito. Voleva vivere, era più viva fuori e comunque adesso, sotto la direzione di Basaglia, sente di reagire di più e di avere la sua personalità. Alta si alza la voce di coloro che respingono di essere identificati come malati e, per l’appunto, di essere chiamati matti: mi hanno lasciata qui perché non mi volevano, non perché fossi matta, dirà, come tanti altri, Filomena.

RESTA AMPIO il ventaglio di sperimentazione delle pratiche di violenza perpetrato dentro l’ospedale, che in tanti chiamavano carcere: non voleva fare il bagno Onorina T. e così le hanno fatto la maschera. Le maschere – una tecnica di contenzione detta anche strozzina – erano rettangoli di tele bagnate, che, applicate sui visi dei pazienti, non permettevano loro di respirare a sufficienza provocando asfissie e perdita di sensi. I vissuti legati alla pratica degli elettroshock sono poi poderosi: se non mangi ti faccio l’elettroshock, tuonavano gli infermieri; in molti ne avevano paura: mi addormentavano, poi ci si svegliava senza memoria, dicevano che sarebbe passato e invece non facevano bene. Poi, anche ad Arezzo, con la direzione affidata al basagliano Agostino Pirella, i pazienti diranno che si cominciava a star meglio.
Fulcro importante di tutte le interviste è l’esperienza delle assemblee come momento collettivo di soggettivazione e di pratiche democratiche. Anche in questo caso sono ovviamente ricchi e variegati i percorsi individuali: le riunioni servono a sviluppare l’intelligenza e svagano l’ammalato; in fondo tutti hanno imparato qualcosa dalle riunioni, diceva Augusto M. Le riunioni di reparto erano più frequentate rispetto alle assemblee generali e molti si sono confrontati con le difficoltà di prendere la parola.

LE PRIME sono le più sentite perché riguardano i problemi più minuti e tangibili («servono perché ci lagniamo», dirà Giuseppina Z. ved. P.). Servono a noi, migliorano il morale dei malati; le assemblee generali servono invece all’ospedale: qualcuno va per parlare e non riesce. Ermenegildo M. racconta di essersi stancato perché alla fine «le direttive le fanno i dottori; chiedono solo il nostro parere, ma poi, se faccio osservazioni, mi dicono di no». In fondo, «le direttive partono sempre da quei due o tre fra i malati che capiscono qualcosa».
Nel tempo non sfuggiranno a Franca e Franco Basaglia queste difficoltà e a lungo si interrogheranno sulla riproduzione dei rapporti di forza tra i pazienti nei momenti assembleari. Perché davvero alta e difficile è stata la posta in gioco; variegate le pieghe delle disuguaglianze e delle fragilità umane. Nessuno dei protagonisti ha affrontato una sfida così difficile – la presa di parola dei soggetti istituzionalizzati – con ingenuità.

SI È IMMERSA nella quotidianità della vita ospedaliera e «sarebbe un errore credere che il lavoro di Bruzzone si sia limitato a una semplice trascrizione. Lei non esita a chiamarlo travaglio», scrive infatti giustamente Marica Setaro. Ad Anna Maria Bruzzone interessava far emergere la voce degli individui stravolti da abbandoni e sofferenze nel processo impervio di una possibile liberazione soggettiva, così come nella scelta di divenire partigiane e di resistere nei campi di sterminio. Protagonista di uno degli innesti più fecondi della storiografica femminista, quando per l’appunto i temi della soggettività e della memoria avevano incontrato la storia orale, Bruzzone (che, si dica per inciso, non ha neppure una pagina su Wikipedia) ricerca non già l’io, ma le sue diverse epifanie dinanzi alle violenze più brutali. Nel 1976 d’altra parte – quindi tra Gorizia e Arezzo – dà alle stampe, con Rachele Farina, uno dei testi fondativi della storia delle donne in Italia: La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi (Bollati Boringhieri lo ripubblicherà nel 2003). Anche qui la scelta è molto perspicace: far raccontare non le partigiane tout court ma quelle «risospinte alla tradizionale condizione subalterne», quelle che non hanno ricevuto neppure un modesto riconoscimento.

NEGLI ANNI NOVANTA raccoglie con un’altra bravissima storica, Anna Bravo, le testimonianze di donne che avevano vissuto il secondo conflitto e che soprattutto vi avevano resistito: la categoria di Resistenza civile conosce una nuova articolazione e un’ampia circolazione.
Si avvieranno presto nuove ricerche e si ripenserà a quel vuoto incolmabile che sta nella difficoltà di tradurre l’intonazione di quelle voci incise su nastro, il senso delle pause, i molteplici usi della lingua; temi su cui da tempo lavora Silvia Calamai con grande competenza. L’archivio sonoro è ora tornato al Colle del Pionta di Arezzo, proprio lì, laddove ieri c’era il manicomio, oggi c’è il campus dell’università di Siena con un nuovo scrigno prezioso.