Un mistero fondamentale avvolge le parole del protagonista e narratore del resoconto familiare che ci offre Leonardo Luccone nel suo Il figlio delle sorelle (Ponte alle grazie, pp. 208, € 16,00): chi è la madre di sua figlia Sabrina, nata diciotto anni prima grazie a una fecondazione assistita? I documenti ufficiali indicano Rachele, dalla quale l’innominato protagonista si è separato tre anni prima del parto. I dubbi si consolidano quando Sabrina scopre i documenti che sembrano comprovare l’infertilità della madre, la quale per di più ha una sorella straordinariamente simile, Silvia, che più volte nel testo sembra assumere il ruolo di doppio.

L’interrogativo perturbante riguarda dunque la possibilità che Sabrina sia figlia di colei che all’anagrafe è sua zia: la questione tormenta i personaggi coinvolti. Nessuno sguardo retrospettivo, nessuna parola «piena» è in grado di mettere ordine nel passato. Al contrario, questa prima e più corposa sezione del testo («la salita») traccia un confuso dedalo di relazioni affettive e familiari, attraverso monologhi e dialoghi dai quali sembra evaporato il tratto narrativo e descrittivo caratteristico del romanzo, al punto che molte pagine ricordano piuttosto una sceneggiatura.

Tuttavia, la parola viva del dialogo e delle memorie, che dovrebbe illuminare il passato in quanto strumento essenziale della quête di Sabrina e materia prima della ricerca di senso del protagonista, scivola invece fatalmente sul vuoto del mistero che riguarda la fertilità materna, trascinando con sé trama e personaggi, che emergono in quanto «voci» ma mai come esseri «creaturali», corporali. Significativo il fatto che il brano dalle caratteristiche diegetiche più usuali (con un narratore a focalizzazione oscillante tra il protagonista e l’onniscenza, e le descrizioni che tornano a svolgere una funzione mimetico-simbolica «classica») coincida, nella seconda sezione del testo («la discesa»), con una fuga dalle penose vicende familiari attraverso un viaggio di padre e figlia in Sicilia, dove risiede una zia del protagonista. Qui, in una porzione di testo densa di simboli mitici che rimandano insistentemente ai misteri Eleusini, Sabrina, assieme a Caussade, anfitrione del castello dove alloggia, compie un singolare viaggio sul lago di Pergusa, proprio sui luoghi dove Persefone è stata rapita e posseduta da Ade. Come lei, coglie un narciso e alcune spighe di frumento, si ciba di un melograno e infine può fare ritorno da dove è giunta, con una consapevolezza nuova.

Passata la notte durante la quale Sabrina tenta invano di raccontare al padre ciò che ha vissuto, i simboli mitici sfumano: «il castello sembra affaticato: le finestre concedono una luce inferma, il canto degli uccelli è al minimo, il glicine è in sciopero …». Persino Caussade-Ade è scomparso. Nella sezione finale del testo («Convivio», parodia del prosimetro dantesco), scomparsa Sabrina, durante un pranzo in riva ad un lago con l’attuale compagna Gilda e la sua famiglia, il protagonista è nuovamente sopraffatto dall’eccesso di voci, che l’hanno tormentato durante l’intera esistenza: «distese di parole e immagini rinsecchite a testimonianza delle troppe possibilità della lingua.» Una catena di significanti che gioca a disorientare, indicando, forse, il chiasso dei nostri giorni, in una vivida antinomia con l’antica sapienza del mito.