«Centinaia di ore di conversazioni registrate nel carcere di Parma, ma anche in quello di Prato dove è stato recluso il mio assistito. Le ho fatte analizzare da un consulente. Sono più di una testimonianza, è una bomba: è uno spaccato di vita carceraria». L’avvocato Fabio Anselmo non nega un certo tempismo nell’aver reso pubbliche le trenta registrazioni contenute in tre Mp3 che Rashid Assarag – 40 anni, detenuto per stupro e sequestro di persona – ha realizzato di nascosto mentre parlava con agenti, medici, psicologi e altri operatori penitenziari dei pestaggi avvenuti e, a suo dire, subiti tra le mura del carcere. Il resoconto è stato pubblicato ieri sul sito e sul numero di edicola de L’Espresso, a pochi giorni dall’inizio del processo d’Appello sulla morte di Stefano Cucchi, dove Anselmo rappresenterà la famiglia del giovane detenuto romano.

«Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu», sembra ammettere nelle registrazioni uno dei 390 agenti del carcere di Parma rispondendo alle domande insistenti di Rashid, che allora era uno dei circa 700 detenuti di quell’istituto. E in un’altra conversazione, secondo L’Espresso: «Comandiamo noi, né avvocati né giudici – afferma un’altra guardia –. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io…». Assarag cerca in ogni modo di far parlare i funzionari: «Perché tutta quella violenza?», chiede. «Perché ti devi comportare bene», è la risposta. E ancora, su una chiazza di sangue che «è ancora lì, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?», incalza il detenuto. «Sì, ho visto», è la apparente conferma.

Correva l’anno 2011 e in quel carcere c’erano stati già altri episodi di violenza tanto che l’allora comandante degli agenti, Augusto Zaccariello, prima di andare via a metà 2011, aveva sentito puzza di bruciato sulla rottura di un timpano di un altro detenuto, Aldo Cagna, e aveva denunciato tutto in procura. I poliziotti ritenuti responsabili sono stati condannati a 14 mesi di reclusione.

Nelle celle di Parma, Rashid Assarag ha registrato a lungo, grazie a un piccolo apparecchio che sua moglie, Emanuela d’Arcangeli, è riuscita a fargli avere. «Ma evidentemente non eravamo soli – racconta la signora – perché gli operatori in carcere non sono tutti brutti e cattivi: c’era anche chi era nauseato da ciò che vedeva, pur nella difficoltà di rompere il muro di omertà». La donna sostiene di essersi rivolta subito al Dap e di aver portato la denuncia in procura a Parma, senza però aver mai avuto alcun riscontro. Viceversa Assarag risulta più volte indagato e in un caso perfino già sotto processo in seguito alle decine di informative presentate contro di lui per oltraggio e resistenza al personale penitenziario. Dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (ancora senza un capo, dal 27 maggio), il vicario Luigi Pagano ha fatto sapere di aver aperto un’inchiesta interna e di aver inviato a Parma una visita ispettiva, pur assicurando di non voler «interferire con il lavoro della magistratura». Nulla di più facile, sembrerebbe.

L’inchiesta interna del Dap è stata accolta «con favore» dal sindacato Sappe che, insieme al Cnpp, raccoglie il maggior numero di aderenti tra gli agenti penitenziari di Parma. Ma non senza una punta di risentimento: «Considerati i controlli serrati, è strano che un registratore fosse finito nelle mani di un detenuto – ha detto il leader del Sappe Donato Capece – ho il sospetto che il fatto sia strumentale o usato ad arte per denigrare l’operato dei baschi azzurri, proprio nel momento in cui si sta definendo con esito positivo la vertenza per lo sblocco dei tetti salariali delle forze dell’ordine».

Un carcere, quello di Parma, in cui è «critica» anche la situazione sanitaria, secondo quanto denunciato ieri dal Garante regionale dei detenuti, Desi Bruni. Il centro clinico interno, gestito dall’Ausl, che dovrebbe operare da pronto soccorso, sarebbe sovraffollato anche per il ricovero di reclusi provenienti da altri istituti. Inoltre, «intere sezioni ordinarie – ha detto Bruni –sono occupate da detenuti affetti da gravi patologie, nell’attesa di essere ricoverati nel centro clinico».

Un tassello in più per capire la vita da reclusi. «Mio marito ha sbagliato e il suo posto è il carcere –dice la signora D’Arcangeli – ma in questi anni nessuno lo ha aiutato nel “recupero”. Anzi, ha pagato caro ogni sua denuncia contro le violenze. Siamo andati avanti per spingere gli altri detenuti ad avere più coraggio. Perché non voglio che a casa torni un uomo peggiore di quello che è entrato. Il carcere sì, ma quello della Costituzione».