Chi pensa che Giotto abbia inventato un metodo originale per mostrare il proprio talento tracciando a mano libera un cerchio perfetto, si dovrà ricredere. Ben prima della sua nascita, nella vasta raccolta di aneddoti scritta nei primi decenni del ’200 da Sadid al-Din Muhammad ‘Awfi, ora raccolte in Le gemme della memoria (a cura di Stefano Pellò, Einaudi, Nue, pp. 402, euro 30,00) si leggono, a proposito di Mani, il fondatore del manicheismo, parole inequivocabili sulla sua padronanza dell’arte pittorica: «dopo aver steso un panno di seta dell’ampiezza di venti guz, era in grado di tracciarvi un cerchio che non mostrava la benché minima sbavatura alla prova del compasso». L’aneddoto proviene dalla terza parte dell’opera, nella sezione di «coloro che si pretesero falsamente profeti». Per il sollievo dell’editore e dei lettori odierni, la traduzione italiana presenta solo un campione ridotto, anche se significativo, dello sconfinato contenuto di questo testo, che nella sua interezza ammonta a più di duemila racconti esemplari, raccolti in gruppi tematici destinati a illustrare, mediante episodi storici o leggendari, i più svariati argomenti. Il libro einaudiano si concentra sul nucleo centrale, la seconda e la terza parte, relative a virtù e vizi dell’uomo, escludendo la prima (su Dio, santi, profeti e califfi) e la quarta (sulle meraviglie del creato e argomenti vari).
Come spesso accade in opere di questo tipo, espressione di una cultura assai distante da noi nel tempo e nello spazio, questo testo si presta a più piani di lettura.

Da una parte, anche ignorando molto del contesto socioculturale di origine dello scritto è possibile godere dell’estetica di una narrazione che l’autore stesso voleva esplicitamente gradevole, sia per la varietà dei temi trattati, sia per la ricercatezza dello stile, che per il gusto corrente può apparire a volte esageratamente retorico e moraleggiante, ma del quale è innegabilmente piacevole la dimensione esotica e fiabesca.
Allo scopo di tener desta l’attenzione di chi legge, il testo abbonda di metafore inconsuete, per esempio nell’accenno a un sovrano defunto: «sparecchiata che fu la sua tavola al banchetto del mondo dal maggiordomo del destino…», oppure nell’illustrare un cambio di idea: «fu così che desistette dall’intraprendere quella professione, riavvolgendo velocemente il tappeto delle proprie velleità». Per la meraviglia del lettore vengono messe in campo un po’ tutte le figure retoriche, incluse iperbole e prosopopea: «misero tanto ardimento nell’attraversare quel deserto che lo stesso stupore ne fu meravigliato e la ragione in persona perse il senno…».

La varietà dei contenuti, poi, spazia da austeri episodi edificanti (come le sfibranti prove autoimposte dal conquistatore di Herat) a racconti brillanti e perfino faceti, come le pagine dedicate alle astuzie femminili. La medesima cornice racchiude, quindi, generi che ai nostri occhi appaiono nettamente distinti, come aneddoti su personaggi storici, cronache contemporanee e topoi letterari convenzionali; ma ciò non discende solo da esigenze estetiche, bensì, anche, da una scelta deliberata, in quanto ciascun racconto è funzionale a illustrare, con il maggior dettaglio possibile, l’universo di riferimento – reale e immaginario – dell’autore e dei suoi contemporanei.

Com’è ovvio, il valore dell’opera non si limita ai suoi aspetti estetizzanti: ci offre soprattutto la preziosa testimonianza (le «gemme» del titolo non sono un termine scelto a caso) di un eccezionale contesto storico e culturale, quello della cultura letteraria indopersiana, erede delle raffinate corti centrasiatiche minacciate dall’irruzione mongola, che andava trasferendo nella pianura indo-gangetica il centro di irradiamento di questo ricco patrimonio culturale. Molto utili per valutare in modo più consapevole il contesto storico e culturale in cui visse e operò Sadid al-Din Muhammad ‘Awfi, sono le 120 pagine tra introduzione, note, bibliografia e indice dei nomi e delle cose notevoli di cui il traduttore e curatore correda il volume.

Si apprende così come ‘Awfi visse nel periodo immediatamente precedente l’invasione mongola, che avrebbe travolto i principati islamici dell’Asia centrale ponendo poi fine, nel 1258, al califfato di Baghdad. Nato probabilmente a Bukhara negli ultimi decenni del XII° secolo, la sua formazione lo portò a frequentare i centri intellettuali più fiorenti dell’epoca come Samarcanda, Gurganj, Nishapur. Di fronte alle crescenti minacce mongole, passò infine in India, dove probabilmente concluse la sua esistenza nel nascente sultanato di Delhi. L’opera dalla quale sono state tratte le pagine che costituiscono Le gemme della memoria è in qualche modo un reperto ineguagliato di quel mondo e di quell’epoca, che dovette essere ricchissima di contributi delle più diverse culture ma, a causa anche del crollo sopravvenuto, è ancor oggi poco conosciuta: come nota il curatore, ‘Awfi «appartiene all’ultima generazione di intellettuali musulmani ad avere avuto accesso alla rete delle grandi biblioteche centrasiatiche prima dell’invasione mongola». Proprio in queste biblioteche, si guadagnò il titolo di «tradizionista», esperto di hadith, non limitandosi però ad accumulare racconti e aneddoti della vita di Maometto, ma estendendo la propria ricerca anche ad altri tipi di «racconto» (hikaya, riwaya) da tramandare per il loro carattere «veridico», secondo criteri che non corrispondono a una distinzione tra storia e fiction ma prestano attenzione alla scrupolosità della raccolta e al carattere didascalico degli insegnamenti da trarne. Lo scopo del tradizionista era quello di ricercare, raccogliere e fissare nello scritto il patrimonio di conoscenze fino ad allora trasmesso di bocca in bocca, quando l’oralità era prevalente.

All’epoca di ‘Awfi le grandi raccolte di detti e fatti del Profeta – indispensabili per orientare il credente nel suo agire quotidiano – erano già state completate, ma al di là delle norme religiose c’era ancora tutto un patrimonio di civiltà da salvaguardare.
Lo spazio geografico e culturale di riferimento offriva un panorama multilingue e multietnico, con l’elemento iranico, intriso di cultura arabo-islamica, ormai da tempo rimpiazzato da dinastie turche nei posti di comando, in rapporti sempre più stretti con la civiltà indiana e con le turbolente tribù mongole ad est, ma non dimentico della passata grandezza di Roma e della Grecia ad ovest. Osservando la molteplicità di «storie», ambientate nei più disparati contesti, nel mondo islamico o al di fuori di esso, in epoche estremamente antiche o coeve all’autore, senza escludere mondi di fantasia purché «esemplari», si comprende come non sia azzardato parlare di una «enciclopedia storico-narrativa», il cui scopo era quello di «proporre una summa insieme descrittiva e prescrittiva sull’uomo e sul cosmo».

Non a caso l’opera ha avuto grande diffusione, attestata dai numerosi manoscritti ospitati nelle biblioteche di tutto il mondo, e dalle molteplici traduzioni nelle lingue più disparate, dal turco al russo all’uzbeco, all’urdu. Di contro, la sua ricezione nelle lingue dell’Europa occidentale è così ridotta che questa traduzione in italiano è l’unica finora esistente, a parte una spagnola del 2011. Contrastando il silenzio che avvolge la cultura indopersiana, essa ci rende gradevolmente partecipi di quello che fu«uno dei più macroscopici e al contempo meno conosciuti fenomeni di produzione e creatività socio-testuale del secondo millennio dopo Cristo».