«Non ho bisogno di radici. L’unica cosa di cui necessito è una memoria»: il messaggio, veicolato attraverso il website di uno degli artisti più interessanti nello scenario contemporaneo, è chiaro. Mounir Fatmi (Tangeri 1970, vive e lavora tra Parigi, Lille, Palma de Mallorca e Tangeri) procede per parallelismi creando ambigui percorsi in cui il linguaggio visuale, sonoro e verbale definiscono una nuova armonia dissonante in cui entra in gioco, offrendo nuovi punti di vista, l’elemento d’inciampo.
Nucleo centrale della mostra Transition State (a cura di Silvia Cirelli), con cui s’inaugura anche la nuova sede della galleria Officine dell’Immagine di Milano (fino al 7 gennaio 2018), è la serie fotografica The Blinding Light (2013) che, come il video The Silence of Saint Peter Martyr (2011), parte da una sollecitazione visiva rinascimentale (Beato Angelico).
Attraverso la manipolazione digitale Fatmi offre la doppia visione del momento narrato nella predella della Pala di San Marco, modulata attraverso il registro del sogno, contestualizzata all’interno di una moderna sala operatoria. La Guarigione del Diacono Giustiniano è il miracolo postumo con cui i santi-medici Cosma e Damiano, apparendo in sogno all’uomo, sostituiscono la sua gamba malata con quella di un etiope deceduto. Al suo risveglio Giustiniano si rende conto di avere la gamba destra guarita, ma nera. Proprio la scoperta di questo «elemento alieno» è stata un tassello determinante nella definizione della personalità di Mounir Fatmi – uomo e artista – che si definisce «un sopravvissuto. Un lavoratore immigrato. Un esiliato permanente».

Il suo lavoro è un attraversamento di sentimenti come paure e desideri, ma anche dogmi, precetti e pregiudizi. Si può non cadere nella retorica realizzando opere che, ha affermato, funzionano come «trappole visuali»?
Il rischio c’è sempre. Ma, per me, è molto importante la trappola estetica, perché l’estetica è la prima cosa che m’interessa veramente dell’arte. Solo in seguito viene anche la possibilità di caricare l’opera di significato perché paure, desideri e tutto ciò che la attraversano non sono soltanto concetti filosofici. Oggi si può parlare di una vera paura. Quella più diffusa – come vediamo anche in questa mostra – agisce nei confronti dell’altro. Una questione che, in realtà, avrebbe dovuto essere stata già risolta nel secolo scorso, attraverso il contributo di figure come Claude Lévi-Strauss. La questione della religione, che non è mai stata così presente come in questo secolo, è diventata particolarmente cruciale anche perché la paura è legata proprio alla religione.

La sua interpretazione della contemporaneità «gioca» con l’aspetto seduttivo e ambiguo del messaggio pubblicitario, nel cui ambito ha lavorato per sei anni. Qual è il confine tra arte e pubblicità?
Intanto la linea di demarcazione è che la pubblicità sceglie sempre un target. Se si deve pubblicizzare un articolo femminile sarà rivolta alle donne e così via per gli uomini, per i bambini… L’arte non si sceglie un bersaglio, spara in aria. Naturalmente quando si spara in aria si corrono anche dei rischi. A me è successo di essere censurato e di avere problemi. Finché l’opera sta nello studio dell’artista è immobile, ma nel momento in cui esce da lì si deve creare una relazione con il pubblico che la vedrà e interpreterà in maniera diversa.

2 DSC_0133 - Mounir Fatmi (ph Manuela De Leonardis)
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Quale sua opera è stata censurata?
Soprattutto, è stato oggetto di polemiche Sleep – Al Naim, un video dedicato a Salman Rushdie in cui c’è solo un uomo che dorme. Trovo incredibile che un’opera d’arte possa essere esposta per tre o quattro anni senza essere criticata e poi, improvvisamente, essere vista in maniera diversa e allora scatta la reazione della censura. In Francia è stata proibita due volte, la prima all’Institut du Monde Arabe di Parigi in occasione della collettiva per i 25 Ans de Créativité Arabe. I paesi arabi si adeguano, sentendosi rassicurati: se ciò avviene in Francia, nel paese della libertà, perché dovrebbero esporla in Marocco, Tunisia o altrove? Ciò, naturalmente, mi provoca un doppio dispiacere.

Considerando  che nel video il respiro di Rushdie è in realtà il suo, è come se la proibizione fosse vissuta sulla  pelle…
Il corpo è la sintesi di un’immagine iperrealista, sei anni ci sono voluti per realizzarla. È come se attraverso il respiro avessi infuso l’anima. D’altra parte, Rushdie è diventato un’immagine virtuale con la fatwa. Dato che abbiamo iniziato l’intevista con la paura, ecco come una semplice immagine virtuale finisca per spaventare il sistema del mondo contemporaneo tanto da decidere di non esporla.

Che ruolo hanno avuto quelle uniche due immagini incorniciate alle pareti della sua casa di famiglia, nel quartiere di Casa Barata a Tangeri, il versetto del Corano e il ritratto di Mohamed V?
Gli oggetti in realtà erano tre. La calligrafia sul muro, la foto del re e un libro, il Corano. Fa sempre sorridere quando racconto che da ragazzino ero sicuro che Mohamed V fosse qualcuno di famiglia, magari un nonno, perché la foto di mio padre non c’era ma la sua sì. Sono cresciuto a Casa Barata, un quartiere molto povero. In casa c’era il Corano, ma io non potevo mai toccarlo perché avevo sempre le mani che non erano sufficientemente pulite. Nella mia immaginazione di ragazzino è come se non avessi avuto il diritto di avvicinarmi a quel libro. Sono cresciuto con l’idea di essere sporco. Linguaggio, architettura e macchina politica sono i soli elementi che ho utilizzato per creare, costruire, cercare di capire il mondo.

C’era anche un quarto elemento, il dizionario arabo-francese…
Sì, era un dizionario che apparteneva a tutto il quartiere. Ricordo quando mio fratello, che è più grande di me, andava a bussare alla casa accanto chiedendo se avevano il dizionario. Magari non lo avevano e bisognava bussare a un’altra porta. La ricerca della conoscenza era un vero lavoro. Capitava anche che, proprio la pagina che serviva fosse volata via! (ride). Credo che sia interessante la relazione tra linguaggio e tempo ma è stata soprattutto la lettura di Lévi-Strauss che mi ha nutrito, come pure la Beat Generation e Brion Gysin.

In una Tangeri che recava ancora le tracce vivissime dei protagonisti della Beat Generation ha incontrato Paul Bowles. La prima volta è stato nel 1987, a 17 anni, qualche anno dopo ha realizzato il film «Solitude et fragments» (1999)…
La Beat Generation mi ha salvato, nel senso che mi ha dato ossigeno. Tutte le persone che ho incontrato erano amabili, intelligenti, rivoluzionarie e molto dotate. È stato Mohamed Choukrie – tra l’altro è stato il primo a scrivere del mio lavoro – che mi ha parlato per la prima volta di Bowles, Gysin, Kerouak. Ripeteva sempre che bisognava leggere. La sua frase ricorrente era «C’è un problema? Non si trova la soluzione? Bisogna leggere!». Così, l’ho fatto. Tutti questi poeti, scrittori erano così avanti per i tempi… Erano americani emigrati, come adesso lo sono io in Europa. Bowles, in particolare, è stato molto generoso, aveva una cultura straordinaria e parlava il dialetto arabo meglio di mio padre. Il progetto del film è nato perché un’amica che gestiva la Librairie des Colonnes, punto di passaggio a Tangeri di tutti gli intellettuali – vi confluì anche Moravia – mi propose di portar fuori Bowles che, essendo malato, non usciva più da casa. Avevo la mia videocamera, filmai la sua ultima passeggiata. Questo film ha più un carattere familiare e tra le immagini di mio padre, la mia ex compagna e mia madre – a metà – ho inserito anche uno spezzone con lui. Solitude et fragments (solitudine e frammenti) indaga la solitudine di questo scrittore e compositore a Tangeri, un uomo giunto alla fine della sua vita, a cui ho aperto le porte della mia casa per farlo sentire meno solo.

Parlando ancora del suo vissuto legato a Tangeri, al mercato delle pulci di Casa Barata ha acquistato una macchina fotografica analogica Yashica. Questo mezzo ha aperto uno spiraglio nel suo sguardo sulla realtà?
(ride) No, per una semplice ragione. Quell’apparecchio, come tutti gli altri che ho acquistato in seguito nello stesso mercato, non mi ha mai permesso di rappresentare la realtà così com’era perché non funzionava bene. Non c’era giorno in cui non mi sentissi frustrato, perché facevo tutto per bene per ottenere belle immagini, ma non andavano mai a buon fine. C’era sempre un problema di luce o qualcos’altro. Ma tutti questi ostacoli mi hanno fatto trasformato in ciò che sono oggi. Non ho barato, ho preso quel che mi è stato dato e me la sono cavata solo con quello di cui disponevo.