Nella tarda mattinata di ieri il presidente Paolo Baratta e il curatore Hashim Sarkis hanno offerto a un pubblico di giornalisti e insiders un primo assaggio della prossima Biennale architettura, la cui apertura è in programma per il 23 maggio del 2020. Nonostante i toni rilassati e la retorica tranquilla e rassicurante di Baratta tutti erano ben consapevoli che per il presidente in scadenza si tratta dell’ultima mostra di architettura.

PER IL CURATORE invece, com’è successo spesso nelle ultime edizioni, è la prima occasione di coordinamento di una mostra importante. Uno strano mix, quello della super-esperienza di Baratta e dell’inesperienza dei curatori scelti, che ha caratterizzato tutta l’ultima fase della sua presidenza, con risultati altalenanti ma migliori di quanto potessimo aspettarci.
È andata decisamente bene con Sejima (2010), benino con Chipperfield (2012), bene con Aravena (2016) dopo la parentesi «intellettuale» di Rem Koolhaas, così così con le Grafton (2018). Il tutto mantenendo sempre lo stesso titolo, declinato in formule semantiche diverse: People meet in architecture, Common ground, Reporting from the front, l’impervio Freeespace, fino all’attuale How we live together, influenzato forse dal bellissimo May We Live in Intersting Times dell’attuale mostra di arte.
A parte la successione – non facile – di Baratta, la vera novità in questo quadro è il profilo del curatore 2020. Hashim Sarkis non è un mega-architetto di fama globale come i suoi predecessori. Ha uno studio noto, tra Boston e Beirut, ma all’immancabile domanda sugli star architects può rispondere senza arrossire «che non riconosce la differenza tra un’archistar e un altro architetto, esperto o giovane che sia».

I GRANDI ARCHITETTI del nostro tempo saranno certamente presenti, dice, «ma solo quando i loro lavori costruiti dimostreranno la forza unica dell’architettura» nel facilitare gli sforzi per produrre case dignitose, spazi pensati per la coesistenza, la tolleranza verso i nostri simili e le altre specie animali e vegetali, la capacità di interagire con le culture digitali e l’ansia del futuro.
Insieme ai big boys ci saranno architetti meno famosi ma impegnati sugli stessi fronti, giovani emergenti, studenti, e poi artisti, tecnologi, sociologi, politici gente comune, insomma la compagnia intera con la quale gli architetti affermano sempre di volersi alleare per trovare risposte plausibili ai problemi del presente e del futuro prossimo.
Sarkis è un architetto libanese, nato a Beirut nel 1964, educato a Rhode Island e Harvard, che anche dopo essersi trasferito negli Stati Uniti non ha mai abbandonato completamente il suo paese, dove realizza, in parallelo ai suoi lavori americani, progetti di residenze, edifici pubblici, scuole, piani urbanistici. Negli Stati Uniti il suo ruolo più influente è soprattutto quello di accademico, prima docente a Harvard poi capo dell’Mit. È insomma alla guida di uno dei think tank più influenti nel campo delle relazioni tra innovazione tecnologica e strategie spaziali. Secondo molti, il futuro, quello che bisognerà saper governare per poter stare «insieme».

DELLA SUA BIENNALE Sarkis ha detto soprattutto tre cose. La prima è che si occuperà degli spazi «da abitare», riferendosi con questa espressione a tutte le scale, dall’interno della casa al paesaggio, alle quali «l’unicità del progetto architettonico» interviene per influire positivamente nel rapporto tra individuo, corpo sociale, spazio fisico, natura, universo digitale.
La seconda è che abbiamo bisogno di un nuovo contratto spaziale tra architetti e società, affinché i progettisti possano avere le armi e le posizioni adatte per contribuire a contrastare la diseguaglianza, l’esclusione, la mancanza di identità, l’assenza dello spazio pubblico e la sparizione del suo corrispettivo politico, il welfare.
La terza è che la sua sarà una mostra molto aperta. Agli architetti invitati chiederà di farsi a loro volta responsabili dell’invito ad artisti, filosofi, scienziati, tecnologi, antropologi, gruppi di opinione, affinché vengano a confrontarsi a Venezia e a «esporre» i loro problemi e visioni. Che però alla fine dovranno sempre sintetizzarsi in progetti architettonici propriamente intesi, poiché quella di Sarkis dovrà essere senza dubbio alcuno una «mostra di architettura».