Il libro di Giulia Novaro, Abitare i margini. Politiche e lotte per la casa nella Torino degli anni Settanta, Ega, pp. 208, euro 15) può essere letto in più modi: malinconico, per un tempo che appare irrimediabilmente perduto; scientifico, grazie a una ricerca e un’analisi di raro spessore sotto molteplici punti di vista; manualistico, per tutti coloro che non credono al paradiso dei giusti finalmente realizzatosi nelle città pacificate dal mercato e dal crollo delle ideologie.

Torino, anni ’60: dove la città termina, quasi alla confluenza della Dora e del Po, un enorme blocco di palazzoni – le «case popolari» – viene ideato e realizzato. Il corso che viene coniato per dare una localizzazione al gigantesco insediamento ha in sé la sua storia: «Taranto». La storia, appunto, è nota: masse di meridionali scendono dai treni a Porta Nuova in arrivo dai campi del Sud, destinazione le miniere industriali della Fiat. La loro casa è nella «valigia di cartone» che portano sulle spalle: prima gli uomini. La città esplode, e si creano baraccopoli dove vengono stipate moltitudini umane.

I PALAZZI di corso Taranto, oltre venti, sorgeranno su terreno agricolo, lontano da tutto, privi di servizi e in generale di livelli minimi di civiltà: l’unica cosa che conta(va) era dare uno spazio agli operai per recuperare energie necessarie alla catena di montaggio. La leggenda vuole che un giorno, affacciandosi dalla sua villa in collina, Gianni Agnelli abbia guardato in compagnia di una amico la città già buia alle nove di sera. «Le luci sono già spente», disse quello, e Agnelli rispose: «Lascia che riposino».

Novaro indica diversi dati sulla composizione sociale e abitativa della Torino che si sviluppa nel dopoguerra. Numeri e testimonianze dirette indispensabili, che sostanziano l’emergere, e il trionfo, del cosiddetto «blocco edilizio», così definito da Valentino Parlato: in cui, per altro, il ruolo del pubblico è assai attivo e rilevante. Sullo sfondo, al di là di corso Taranto e di Torino, il piano casa Fanfani con la nascita dei quartieri popolari periferici, nonché la proposta di Legge Sullo, oggi dimenticata e cancellata perché tacciata al tempo di bolscevismo o quasi.

IL LIBRO corre attraverso gli anni, le vicissitudini e le ambiguità di un tempo in cui lo Stato, nonché i suoi corpi intermedi, si pongono prevalentemente come camera di compensazione che tenta di strappare al capitale qualche concessione. Sono storie note ma dimenticate quelle che racconta Novaro. Utile riproporle oggi che tutto sembra lontano, superato, risolto. Su tutto, la potenza magmatica di quel proletariato che riuscì ad organizzarsi nonostante la stanchezza della fabbrica, la stanchezza umana, la vita bestiale.

Novaro descrive senza epica, il suo lavoro è un altro: ma leggendo le pagine in cui si racconta la vittoria sull’amministrazione comunale, di fatto la rappresentante del capitale che chiedeva altri dormitori per la manodopera, viene voglia di trasformare quella storia in esempio. Il comitato spontaneo che si auto-organizzò bloccò la costruzione di un nuovo, gigantesco, insediamento: lo fece con coraggio, unendosi agli studenti in arrivo da architettura. Siamo nel ’69 e al posto dell’ennesimo palazzone nasce prima un campetto di calcio che nel tempo diventerà giardino con servizi commerciali e non solo. Viene perfino bloccata la costruzione di una chiesa, poi spostata.

Dopo la vittoria segue la stanchezza, la diaspora del tempo edonistico che disgrega una lotta di quartiere. Passano gli anni, l’emergenza abitativa rimane. I poveri di oggi, che con ogni probabilità sono i figli di coloro che vissero il far west descritto da Novaro si trovano da un’altra parte della storia della povertà: non quella legata al lavoro industriale, ormai scomparso a Torino, ma quella dettata dal «nomadismo» di cui scrisse Luciano Gallino.